sabato 28 novembre 2009

Ai lettori

Cari Amici, avrete notato che sono diversi giorni che il blog non viene aggiornato. Avete diritto a una parola di spiegazione. Come sapete, da qualche settimana sono tornato in Italia e ho ripreso il mio consueto lavoro nella comunità, nella scuola e nella parrocchia. Ebbene, devo confessare che, almeno per il momento, non riesco a stare dietro al blog. Non è la prima volta che mi capita: anche quando mi ero trasferito dalle Filippine in India era successo qualcosa di simile. Il cambiamento di ambiente e di attività comporta inevitabilmente una fase di adattamento. In quel caso, dopo qualche tempo, riuscii a organizzarmi.

Ora, direi, stiamo a vedere che cosa succede: se, anche questa volta, dopo una prima fase di rodaggio, riesco a trovare il modo di conciliare l’attività di blogger con i vari impegni a cui devo attendere quotidianamente, oppure no. Se non sarà possibile, significa che sarò costretto a sospendere tale attività. Mi dispiacerebbe, perché ho notato che Senza peli sulla lingua, in questi dieci mesi, ha riscosso un lusinghiero successo in termini di interesse e numero di lettori (proprio in questi giorni in un blog peruviano esso è stato definito “prestigioso”!). Ma, dovendo operare una scelta fra le incombenze richieste dall’obbedienza e un’attività di libera iniziativa, non c’è dubbio da che parte penderà la bilancia: è ovvio che per un religioso al primo posto viene sempre l’obbedienza. “In la sua voluntate è nostra pace”.

martedì 24 novembre 2009

Porgere l'altra guancia?

Ricevo da David:

«Tempo fa, durante uno dei soliti pogrom periodicamente scatenati dai musulmani locali contro la comunità cristiana, un vescovo anglicano della Nigeria mandò a dire ai leader islamici attraverso la stampa che non erano loro i soli a saper usare i fucili. La risposta, almeno nel medio periodo, sortí l’effetto desiderato: agli islamisti forse venne in mente che nel Vecchio Testamento (che è parte integrante delle scritture) David afferma con coraggio: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato”, prima di uccidere Golia. Ora, lasciamo da parte le armi vere e parliamo solo di quelle mediatiche e legali.

Ho letto il caso di Miss Brown e Myriam su Il Sussidiario e mi sono reso conto di una cosa: in fondo, la signora — che nemmeno è cattolica, credo — è stata lasciata sola e in braghe di tela dai suoi correligionari. Già, perché per quello che ho capito non ci sono state fiaccolate per le strade della città in difesa delle due donne, né la diocesi — che immagino sia anglicana o evangelica — ha alzato un dito per difenderla, magari solo costituendosi parte civile — se possibile nel diritto di common law — o meglio ancora pagandole un ottimo avvocato. Mi sono detto: il Signore aveva profetizzato che i figli della luce sarebbero stati meno scaltri di quelli delle tenebre... non castrati! Già, castrati.. nel senso di privi di vigore nel difendersi e nel difendere i deboli. Qualcuno deve avere in testa una bizzarra interpretazione di “porgere l’altra guancia”: se di fronte al male e all’oppressione dei piccoli restiamo inerti, ci rendiamo complici di un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio (per dirla con San Pio X) e attiriamo su di noi quella stessa ira.

Siamo forse ciechi? Non ci accorgiamo che in America l’ABC è un atteggiamento diffuso? Mi riferisco a quel furore antipapista (“All But Catholicism”) che provoca discriminazioni, abusi e non poche violenze contro le comunità cattoliche, indipendentemente dalla loro etnia. Il pregiudizio è talmente diffuso che un solo presidente cattolico è stato eletto in duecento anni in un Paese per oltre un terzo abitato da... papisti. Se questo succede negli Stati Uniti, figurarsi in altri Paesi! Se in Francia la Catholica da un secolo vive sotto il pregiudizio continuo della “laicità di stato”, in Spagna da un lustro il Governo è animato da un furore ideologico spaventoso e privo di rispetto per quanti sono stati massacrati nella Guerra Civile Spagnola (agli “smemorati” che accusano la Chiesa di simpatie franchiste, ricordo che cinquemila religiosi e decine di migliaia di fedeli finirono trucidati dalle sinistre anarchico-socialiste: io ho ottima memoria!). In Russia e in Turchia siamo tollerati a patto di non fiatare. In Cina, in Viet Nam, nel mondo arabo e in Birmania essere cattolico è ragione sufficiente per finire incarcerati senza difesa e senza processo. In India e in Africa si è assistito a “cacce al cattolico” degne di Diocleziano. Le istituzioni europee hanno reso legale il pregiudizio anticattolico: l’ostensione di simboli e la pratica religiosa sono ragioni sufficienti per perdere incarichi pubblici ecc.

Ora, mi domando che senso abbia stare a guardare questo scempio. Certamente, ognuno di noi ha il diritto — di radice evangelica — di porgere la propria guancia all’infinito per ricevere schiaffi: ma nessuno, in buona fede e facendosi scudo delle Scritture, può lasciare che questo succeda agli altri. Quante volte abbiamo voltato la testa dall’altra parte, pensando che in fondo per i cristiani è “normale” essere perseguitati? Ipocrisia: è un modo come un altro per lasciare che le guance degli altri vengano percosse! Perché le conferenze episcopali non si costituiscono parte civile in tutti i processi in cui ci sia “fumus persecutionis” contro cattolici? Mi si dirà che la Chiesa non può rischiare di mettersi dalla parte dei colpevoli: beh, questa è una bella corbelleria! Vige il principio della presunzione di innocenza, non il contrario! Poi, in tanti casi il “fumus” è evidente e merita approfondimenti... Tra l’altro, sarebbe opportuno una buona volta imitare i musulmani e gli ebrei che hanno costituito agenzie apposite, come la Anti-Defamation League, al solo scopo di tutelare il buon nome e la libertà dei loro correligionari e della loro fede. Basterebbe davvero poco: in fondo, non credo che alla Santa Sede o alle Conferenze Episcopali manchino i fondi né le relazioni con principi del foro e giornalisti capaci per scatenare campagne giudiziarie e nei media in difesa dei cattolici oppressi.

Fino a quando continueremo a porgere l’altra guancia... dei fratelli?».

Sono d’accordo. Sempre pronti a batterci il petto, anche per colpe che non abbiamo commesso, ma mai pronti a batterci in difesa della Chiesa.

domenica 22 novembre 2009

Cristo Re

«Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità».

Facciamo qualche difficoltà a cogliere il nesso logico fra la prima affermazione di Gesú («Io sono re») e la seconda («Sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità»). Solitamente, per noi, non esiste alcun rapporto fra regalità e testimonianza della verità. La regalità, la colleghiamo spontaneamente con il potere e la forza. La testimonianza della verità, invece, la associamo ad altre figure, come il profeta, il maestro, il martire... certo, non al re. Semmai, il compito dell’autorità, piuttosto che nella testimonianza della verità, lo individuiamo nell’edificazione dell’unità.

Eppure, Gesú ci dice che lui è re, perché è venuto a dare testimonianza alla verità. È vero, nel testo evangelico quel “perché” non c’è; ma, secondo le usuali regole di interpretazione, esso è chiaramente presupposto. Che cosa intende dire Gesú?

Gesú aveva appena affermato: «Il mio regno non è di questo mondo ... il mio regno non è di quaggiú». C’è una profonda differenza fra la regalità umana e quella di Gesú. È vero che la regalità terrena si identifica col potere; ma non è questo che la distingue dalla regalità di Gesú: anche a lui «furono dati potere, gloria e regno ... il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai». La differenza sta nel fondamento di tale potere: nel mondo, il piú delle volte, il potere si fonda sulla menzogna; è una mera manifestazione di forza. Comanda chi è piú forte: il potere, viene per lo piú preso e imposto con la forza. Per nascondere tale realtà, la si avvolge nella menzogna; e questa diventa cosí il fondamento del potere. È per questo che i tiranni temono la verità piú che la violenza: perché sanno che, se si dice la verità, il loro potere si sbriciola (alla violenza, invece, possono sempre opporre altra violenza). Ce lo insegna la storia, anche recente: regimi, che sembravano incrollabili, spazzati via, da un giorno all’altro, dalla forza inerme della verità...

Gesú è venuto nel mondo totalmente disarmato, nella piú assoluta debolezza: la sua sola forza stava nella verità: «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità». Eppure, o meglio proprio per questo, «a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28:18). Il suo potere si fonda non sulla forza, ma sulla verità. Il potere, lui non lo prende con la violenza, ma gli viene concesso dall’alto. Il regno di Cristo non è di questo mondo, perché non è un regno che si fonda sulla forza delle armi, sull’oppressione, sulla menzogna, sull’ingiustizia; non è un regno che genera odio, sofferenza e morte, ma un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace».

sabato 21 novembre 2009

Ancora sull'immigrazione

David fa, come al solito, considerazioni molto interessanti sul fenomeno dell’immigrazione:

«Per dire due parole sulle migrazioni, voglio partire da un... tubero! Nel 1846 la Vergine a La Salette fece una profezia: “Le patate marciranno sotto terra”. Nel 1847 la peronospora, un parassita venuto dall’America, distrusse il raccolto del prezioso alimento in tutta l’Europa. Per chi aveva cereali, legumi e vino di cui cibarsi, la perdita fu grave ma non devastante. Per gli Irlandesi, che si nutrivano da generazioni con 5/6 chili di patate (miste a latte) al giorno, significò la piú grave carestia della loro storia. Per cinque anni l’isola verde fu spazzata dalla fame (la “Grande Carestia”, appunto), dalle epidemie e... dall’indifferenza dei padroni, gli Inglesi, che colsero l’occasione per applicare in modo integrale la dottrina malthusiana: non hanno cibo perché sono troppi, sono troppi perché fanno troppi figli, ergo lasciamo che la natura faccia il suo corso... A dire il vero, Londra non rimase del tutto indifferente, cosí come le organizzazioni internazionali e le grandi corporation non sono del tutto sorde alle miseria di certe aree del Terzo Mondo: il Parlamento approvò la cosí detta “Poor Law”, che obbligava i contadini irlandesi a cedere le loro terre per ottenere aiuti utili alla mera sussistenza. Chissà se non fischiano le orecchie a certi fautori di campagne di aiuti umanitari o investitori nell’Africa sub-sahariana... Il risultato fu che l’isola, che aveva una popolazione di 8,2 milioni di persone nel 1841, perse il 25% degli abitanti nel giro di dieci anni e altri quattro milioni nei due decenni successivi. Carestia, sfruttamento, insensata lotta al sovrappopolamento: sono realtà che da due generazioni molti Paesi africani e asiatici conoscono bene. La conseguenza è la stessa che per gli Irlandesi nell’Ottocento: milioni di persone allora si spostarono soprattutto verso gli Stati Uniti, producendo un colossale “shock” per un Paese allora a stragrande maggioranza WASP: White, AngloSaxon and Protestant. Gli Irlandesi, seguiti poi da Italiani e Polacchi, determinarono un radicale cambiamento negli States: apparvero le prime chiese cattoliche, i primi monasteri e infine i primi santuari mariani sulla costa orientale. Oggi, si ha spesso l’impressione che l’immigrazione debba comportare per forza di cose una islamizzazione dei Paesi ospiti. E poi un aumento del tasso di criminalità. Sull’islamizzazione, credo che cozzi contro le cifre vere del fenomeno: la grande maggioranza degli immigrati provengono da Paesi di religione ortodossa (Romania, Russia, Ucraina) o cattolica (Filippine, Polonia, Croazia e Sud America), mentre gli arabi islamici sono soprattutto concentrati in alcune aree (Nord-Ovest dell’Italia, Paesi Bassi, Sud del Regno Unito, Parigi) dove la stupidità di certi politici ha concesso loro privilegi non dovuti e spesso nemmeno richiesti. Altro è il discorso circa la criminalità. A costo di attirarmi le ire dei lettori del Sud, voglio dire che il Centro-Nord dell’Italia aveva già perduto la sua tranquillità con le grandi migrazioni dal Mezzogiorno, che avevano riversato — in mezzo a milioni di campani, calabresi, siciliani e pugliesi onesti — gran parte della feccia della criminalità meridionale nei capoluoghi industriali del Nord. È inutile nascondersi dietro un dito: le organizzazioni mafiose cinesi, russe, nigeriane e marocchine hanno tratto gli stessi vantaggi che a suo tempo conseguirono la Camorra, Cosa Nostra e la Ndrangheta. Ora, parlare di accoglienza in uno scenario come questo, non è facile e a prima vista appare anche una scelta coraggiosa. Ma non sempre è una scelta in favore dei Paesi di origine delle migrazioni: è mia opinione che la Chiesa cattolica tratti spesso questi fenomeni solo dal punto di vista del “grande uomo bianco”. Sí, perché per l’Irlanda la perdita di tre quarti della propria popolazione significò la condanna a uno stato di perenne depressione e di sottosviluppo, che si è allentato per una ventina di anni, fino alla crisi del 2008. Piccola, povera e davvero isolata, l’Irlanda ha cattolicizzato il mondo, ma a un prezzo altissimo. Lo stesso discorso vale per i giorni nostri: l’ingegnere egiziano che fa il pizzaiolo a Napoli o che arrostisce salsicciotti a Central Park magari riesce a inviare delle rimesse a casa, ma rappresenta pur sempre una sconfitta per il suo Paese, che lo ha cresciuto e educato per ben altri compiti. Il rientro in patria degli emigranti italiani, una volta giunti all’età della pensione, ovvero il ritorno in India di ingegneri e tecnici informatici di fronte al boom della Sylicon Valley indiana sono, a dire il vero, il segno che l’emigrazione, lungi da essere un segno di speranza, rappresenta solo una soluzione transitoria fuori dalla disperazione. Forse dovremmo leggere di piú le Scritture sull’esilio degli Ebrei a Babilonia e pensare quanto in fondo “sa di sale lo pane altrui”».

È sempre bene considerare le cose da diversi punti di vista, perché in tal modo se ne scoprono aspetti, che altrimenti rimarrebbero nascosti. Penso comunque che qui non si tratta tanto di esprimere un giudizio di valore sulle migrazioni: se esse siano opportune o no. Esse sono una realtà, di cui dobbiamo prendere atto. Come dicevo ieri, in tutte le cose possiamo scoprire aspetti positivi e negativi (nell’esperienza irlandese, l’aspetto positivo è stato la “cattolicizzazione” degli Stati Uniti; l’aspetto negativo, la depressione di quel paese fino ai nostri giorni). La preoccupazione della Chiesa non è tanto quella di esprimere giudizi di valore sui fenomeni storici, quanto quella di “umanizzare” certe situazioni, che non dipendono da essa: ecco il discorso dell’accoglienza. Certo, sarebbe bello che tutti potessero restare a casa loro, e cosí contribuire allo sviluppo del proprio paese. Forse, come abbiamo detto altre volte, la Chiesa non dovrebbe limitarsi a esortare all’accoglienza; dovrebbe farsi anche promotrice di progresso in loco (e in parte già lo fa). Ma intanto deve fare i conti con una realtà esistente, di fronte alla quale non può rimanere indifferente; e lo fa non solo invitando all’accoglienza, ma anche cercando di trasformare, come dicevamo ieri, quello che potrebbe sembrare solo un problema in un’opportunità.

Pienamente d’accordo sulla stupidità di certi politici: andatevi a leggere questa storia incredibile sul Sussidiario di oggi.

venerdì 20 novembre 2009

Chiesa e immigrazione

Beatrice, dalla Francia mi chiede un parere su una questione molto attuale, delicata e dibattuta: l’immigrazione. Nel suo messaggio fa riferimento al discorso pronunciato dal Santo Padre, una decina di giorni fa, nel corso dell’udienza ai partecipanti al VI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati. E aggiunge:

«Come dice Caterina per un altro soggetto, si tratta di un argomento che, “non avendo nulla a che fare con l’infallibilità”, può essere pacificamente discusso. Debbo confessare che faccio un po’ fatica a capire che cosa si aspetta il Santo Padre da noi (pur essendo sicura che egli dice la sola cosa possibile nel suo ruolo) leggendo questo: “La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie, sapendo che essi non sono solo un ‘problema’, ma costituiscono una ‘risorsa’ da saper valorizzare opportunamente per il cammino dell’umanità e per il suo autentico sviluppo”. Personalmente, credo di fare il mio possibile, ma l’inverso non è affatto evidente, qui dove vivo...».

Sono d’accordo con Beatrice che, trattandosi di una questione pastorale, non entra in gioco l’infallibilità, che riguarda esclusivamente le questioni dottrinali di fede e di morale. I problemi pastorali possono avere soluzioni diverse (e di fatto la Chiesa li affronta in maniera diversa, a seconda dei tempi e dei luoghi) e se ne può perciò liberamente discutere. Ciò non significa però che la Chiesa non abbia il diritto — e il dovere — di dare ai fedeli degli orientamenti da seguire, ispirandosi ai principi morali (quelli, sí, immutabili) e tenendo conto delle situazioni concrete in cui viviamo. Si tratta di uno dei compiti principali della Chiesa in ogni tempo: essa non deve solo interpretare e proclamare la retta dottrina, ma deve anche applicare tale dottrina alle diverse epoche storiche e ai diversi ambienti geografici in cui si trova a vivere.

Benedetto XVI, giustamente, rileva nel suo discorso: «Se il fenomeno migratorio è antico quanto la storia dell’umanità, esso non aveva mai assunto un rilievo cosí grande per consistenza e per complessità di problematiche, come al giorno d’oggi. Interessa ormai quasi tutti i Paesi del mondo e si inserisce nel vasto processo della globalizzazione». Se questa osservazione è vera — come è vera (e penso che nessuno possa eccepire sulla sua validità) — potrebbe la Chiesa ignorare tale fenomeno e far finta che non esista? Se lo facesse, allora sí che la si potrebbe accusare di vivere fuori del mondo. Non è solo suo diritto, ma è suo dovere prendere posizione in materia, non per “fare politica” (è ovvio che non è compito della Chiesa proporre soluzioni tecniche al problema), ma per ricordare i principi morali che devono guidarci nella ricerca di tali soluzioni tecniche e, soprattutto, per indicarci quale deve essere l’atteggiamento di fondo, le disposizioni interiori con cui dobbiamo affrontare il problema.

Il tema del convegno (e del discorso del Papa) era: “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”. Esso ci ricorda che la novità non sta nel fenomeno migratorio in sé (sempre esistito), ma nell’era della globalizzazione, in cui esso si inserisce. Per quanto si possa discutere sulla globalizzazione, essa è un dato di fatto, è la realtà in cui viviamo: ne godiamo dei benefici e ne subiamo gli inconvenienti. Dove inseriamo le migrazioni: fra i benefici o fra gli inconvenienti della globalizzazione? Probabilmente sia fra gli uni che fra gli altri, perché tale fenomeno comporta tanto benefici quanto inconvenienti; come, del resto, qualsiasi altra realtà umana: non c’è rosa senza spine.

La tentazione, che assale anche molti cristiani, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione e dall’immigrazione è quella di chiuderci in noi stessi e dire (come abbiamo sentito ripetere anche in questi giorni): “Tornino a casa loro! Non c’è lavoro per noi; figuriamoci per loro!”. Può essere una reazione comprensibile; ma del tutto irrazionale. In certi casi, non possiamo lasciarci guidare dalle emozioni; dobbiamo usare la testa. Soprattutto chi ha la responsabilità della cosa pubblica e deve trovare le soluzioni tecniche di cui si diceva, deve farlo usando la ragione e non assecondando le spinte emotive.

Il pensare di potersi chiudere in sé stessi e in tal modo risolvere i nostri problemi è semplicemente ingenuo e illusorio. Che lo si voglia o no, viviamo in un mondo globalizzato; siamo cioè interconnessi col resto del mondo e dell’umanità. E non possiamo farne a meno: tanto vale cogliere questa occasione per trarne il maggior beneficio per noi stessi e per gli altri. Viene gente da ogni parte del mondo a cercare lavoro qui da noi? Che male c’è? Lo abbiamo fatto anche noi nel passato; e se oggi godiamo di un certo benessere, lo dobbiamo anche ai sacrifici dei nostri padri e dei nostri nonni, che hanno lasciato l’Italia in cerca di fortuna all’estero. Inoltre, noi abbiamo bisogno di questi lavoratori: non è vero che rubano il lavoro ai nostri figli; semplicemente riempiono dei posti che, senza di loro, rimarrebbero vuoti. Non solo non possiamo rifiutarli, ma dovremmo essere loro riconoscenti, perché vengono a svolgere dei servizi, di cui abbiamo bisogno e che altrimenti nessuno farebbe.

Questo, credo, significhi trasformare un “problema” in una “risorsa”. È vero che talvolta tale frase può trasformarsi in uno slogan; ma si tratta di un principio generale profondamente vero: saggio è colui che è capace di trasformare i problemi in “opportunità”. Anziché continuare a lamentarsi, imprecare e piangersi addosso, è molto meglio cercare di trarre qualche vantaggio da certe situazioni che siamo costretti a subire. Difficile? Non c’è dubbio; ma dove sta scritto che la vita sia facile? Oltre tutto, quando non ci sono soluzioni alternative, l’unica via da seguire è appunto questa: sfruttare la situazione per trarne la maggior convenienza. Come vedete, non faccio un discorso moralistico, ma un discorso di interesse (ovviamente, non un tornaconto egoistico, ma, se vogliamo, “globale”).

Beatrice chiede: Che cosa si aspetta il Santo Padre da noi? Non sono il Santo Padre per poter rispondere alla domanda; ma il buon senso mi suggerisce che certamente non si aspetta che noi risolviamo problemi piú grandi di noi: non ci riescono i politici; dovremmo riuscirci noi? Credo che l’unica cosa che il Papa si attende dai cristiani sia, appunto, un atteggiamento di “apertura” nei confronti degli immigrati: «La Chiesa invita i fedeli ad aprire il cuore ai migranti e alle loro famiglie». “Aprire il cuore” non significa, necessariamente, aprire la propria casa o aprire il portafoglio: ci potranno essere dei momenti o delle situazioni in cui ci viene chiesto anche questo; ma è ovvio che, in generale, i semplici fedeli (e cittadini) non possono farsi carico dei problemi dell’umanità intera. “Aprire il cuore” significa non essere prevenuti verso gli immigrati, non considerarli dei “nemici” o dei criminali, ma dei poveri disgraziati, che hanno bisogno della nostra compassione e del nostro aiuto. Aiuto non significa fare loro l’elemosina (oltretutto non rispettosa della dignità delle persone), ma dare loro la possibilità di trovare un lavoro e una sistemazione: se, per esempio, abbiamo bisogno di qualcuno che lavori per noi, non dovremmo escludere la possibilità di affidare (pur con tutte le cautele e nel pieno rispetto della legalità) tale lavoro a un immigrato. Ma ciò che è piú importante è vedere negli immigrati non delle bestie, ma degli esseri umani o, se volete, dei “fratelli” (anche quando non condividono la nostra stessa fede, ma sono pur sempre “figli di Dio”). Non potremo forse risolvere tutti i loro problemi; ma, per lo meno, li avremo fatti sentire accolti e non degli stranieri.

martedì 17 novembre 2009

Di ritorno dall'Asia

Vi avevo detto che ho terminato la mia esperienza missionaria in Asia e sono tornato in Italia. Vorrei riferirvi brevemente di questa esperienza, perché potrebbe essere interessante. Forse, chiamarla “missionaria” è un po’ eccessivo: il motivo per cui sono andato in Asia era principalmente la formazione dei nostri candidati alla vita religiosa. Soprattutto per motivi di comunicazione (e anche per altri motivi che vi dirò), non è che si potesse fare molto di piú.

Come sapete, ho trascorso cinque anni nelle Filippine, in due riprese: dal 2003 al 2005 e poi dal 2006 al 2009. Le Filippine, a rigor di termini, non sono “terra di missione”, essendo un paese (l’unico in Asia!) a stragrande maggioranza cattolico; ma i sacerdoti stranieri vengono comunemente (e anche legalmente) considerati “missionari”. Sono andato nelle Filippine, quando ero assistente generale dell’Ordine, per aprire lí il nostro seminario teologico. Come molti altri istituti religiosi, anche la nostra Congregazione si è recata nelle Filippine (quest’anno ricorreva il ventesimo anniversario di fondazione) per far fronte alla penuria di vocazioni. Il Signore ci ha benedetto con una grande abbondanza di seminaristi. Per diversi anni, questi, dopo il noviziato svolto in patria, venivano in Italia per lo studio della teologia; ma, a un certo punto, ci siamo resi conto che era meglio che svolgessero tutta la formazione nel loro paese (lo stesso si fece per i latinoamericani e gli africani). Per questo, nel 2003, decidemmo la costituzione di un nuovo studentato teologico, il “Saint Paul Scholasticate”, a Tagaytay, una città in un’incantevole posizione, a una cinquantina di chilometri a sud di Manila. In mancanza di personale disponibile, mi trasferii in loco per la realizzazione del progetto: avvio del seminario in una casa presa in affitto dai Verbiti; acquisto di un terreno; costruzione del nuovo studentato. Quando la nuova struttura fu conclusa, pochi giorni dopo la sua inaugurazione, il Padre Generale mi richiamò a Roma per la preparazione del Capitolo generale (2006). Dopo il Capitolo, ridiventato “privato cittadino”, mi fu chiesto di tornare nelle Filippine e riprendere la conduzione dello studentato, dove sono rimasto fino all’aprile di quest’anno. Attualmente esso è diretto da padri filippini e conta oltre venti studenti professi teologi (a essi vanno aggiunti una dozzina di novizi e una quarantina di aspiranti).

L’esperienza filippina è stata molto bella; non ho fatto alcuna fatica ad adattarmi. Le Filippine sono un ambiente assai accogliente, dove ci si sente a proprio agio. I filippini, li conoscete: sono persone riservate, rispettose, gentili e amabili. E poi sono cattolici, con uno spiccato senso religioso (che forse talvolta rischia di sconfinare nella superstizione). Hanno un grande rispetto per la Chiesa e, in particolare, per i sacerdoti. Tale rispetto si traduce pure in leggi particolarmente favorevoli alla Chiesa. Le Filippine sono un paese laico, ma di una laicità positiva, del tutto aliena dalle tendenze anticlericali presenti in Europa. L’unico problema per noi missionari stranieri è quello della lingua: l’inglese, pur essendo una delle lingue ufficiali, è parlato solo da un’élite; per comunicare con la gente bisognerebbe studiare le lingue locali (che per fortuna non sono affatto difficili), ma io non ho avuto abbastanza tempo per farlo (anche se celebravo la Messa in tagalog).

Quest’anno Padre Generale mi ha chiesto di trasferirmi in India, dove nel frattempo (due anni fa) la Congregazione aveva aperto una nuova fondazione. Il mio predecessore era stato costretto a lasciare il paese, accusato di proselitismo. Finora non avevo rivelato la mia residenza, per evitare che si ripetesse la stessa avventura; che invece si è ripetuta anche per me; per cui, allo scadere del mio visto (turistico) semestrale, ho dovuto lasciare il paese. Ora c’è lí un sacerdote indiano con una dozzina di seminaristi (oltre quattro indiani che tanno facendo il noviziato nelle Filippine). La nostra fondazione è a Bangalore, capitale dello stato del Karnataka, nel sud del paese. Bangalore è una grande città, centro mondiale dell’informatica. È considerata una specie di “Vaticano” dell’India, perché vi sono presenti un po’ tutti gli istituti religiosi; ma nello stato i cristiani sono una infima minoranza e spesso perseguitati: ogni tanto viene ucciso qualche prete; spesso le chiese sono profanate; gli stranieri sono tenuti sotto controllo. C’è al potere il partito fondamentalista indú BJP (mentre a livello nazionale governa il Partito del Congresso di Sonia Gandhi).

L’esperienza in questo tipo di ambiente non è stata facile: come “turista” non potevo fare nulla; avrebbero voluto che neppure facessi lezione ai seminaristi (in casa) o addirittura che non predicassi durante la Messa. Eppure è stata un’esperienza importantissima per me, perché era la prima volta che mi trovavo a vivere in un paese non-cristiano. E lí ho potuto rendermi conto della vitalità della Chiesa e della forza del Cristianesimo. E mi par di capire che è proprio questo che provoca la reazione anticristiana: hanno paura che il Cristianesimo abbia il sopravvento. E hanno ragione ad aver paura, perché sono convinto che, prima o poi, l’India diventerà un paese cristiano: ci sono molti indú e musulmani che, pur non convertendosi per motivi di convenienza, sono intimamente convinti della verità del Cristianesimo (tanto per farvi un’idea, date un’occhiata a questa notizia dell’altro giorno su AsiaNews). A Bangalore c’è il piú importante santuario mariano, la Saint Mary’s Basilica, che sorge nel bel mezzo del quartiere musulmano, ed è frequentato da tutti: cristiani, induisti e musulmani. Tutti hanno un grande rispetto e devozione verso la Madonna. Nel nord del paese ci sono degli stati che stanno diventando completamente cristiani. Voi capite che tutto ciò crea inquietudine fra i fondamentalisti, che vorrebbero che l’India fosse un paese indú (non lo è mai stato, essendo sempre stato un paese multietnico e multireligioso, e cosí lo voleva Gandhi; ma la divisione con il Pakistan ha creato l’idea che questo dovesse essere uno stato islamico e l’India un paese indú).

Naturalmente, anche la Chiesa indiana ha i suoi problemi: soprattutto, le divisioni tra diversi riti (latino, malabarese e malankarese), diverse lingue (a Bangalore, la diocesi vuole che si usi la lingua locale, il kannada; ma la maggior parte dei cattolici sono tamil con consistenti minoranze di malayalee del Kerala; e lo stesso Arcivescovo è di lingua konkani, la lingua di Goa: potete immaginare che caos!) e diverse caste (ancora ufficialmente esistenti in alcuni stati). Eppure, nonostante le difficoltà, la Chiesa appare forte e in piena espansione: lí si ha la chiara riprova che la vitalità della Chiesa non dipende dai nostri sforzi umani, ma dalla grazia di Dio.

Ora torno alle mie consuete attività, ma con una coscienza piú viva dell’universalità della Chiesa, che mi aiuta a ridimensionare i nostri piccoli problemi di ogni giorno e ad affrontarli in una luce totalmente nuova.

lunedì 16 novembre 2009

Chiesa e Internet

Si è svolto nei giorni scorsi in Vaticano un simposio su Internet, promosso dalla Commissione per i mezzi di comunicazione del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE). Ne potete leggere la notizia su ZENIT.

Caterina mi ha inviato un suo commento all’intervento di Monsignor Jean-Michel di Falco Léandri, Vescovo di Gap e Embrun (Francia) e Presidente della Commissione episcopale europea per i media, il quale ha riferito di «un’inchiesta condotta nel mondo francese di Internet che mostra come i siti evangelici siano piú visitati di quelli cattolici, anche se la popolazione cattolica del Paese è molto piú consistente di quella evangelica». Ecco le riflessioni di Caterina:


«Nota mia sui siti evangelici che conosco da 10 anni, almeno quelli in Italia. Non è affatto vero che essi escono da se stessi per mettersi come prima cosa al posto degli altri, rispondono ai bisogni. È vero invece che essi usano Internet per evangelizzare soprattutto i cattolici. Mi fa davvero specie che il presule nell’inchiesta non abbia annotato la cattiveria e l’astio della maggior parte dei siti evangelici contro la Chiesa cattolica, contro il Papa, contro il culto a Maria e ai santi. E come si fa a proporre come esempio dei siti come quelli evangelici che fanno riferimento alla Bibbia con una interpretazione diversa da quella della Chiesa?

E mi fa specie che il presule non abbia annotato che il maggior successo dei siti web evangelici sta nei soldi: molti degli iscritti pagano di tasca propria il mantenimento delle spese; in altri c’è la decima; altri ancora prestano gratuitamente la loro bravura al sito. Indubbiamente la vera differenza fra i siti cattolici e quelli evangelici sta proprio nella necessità del concetto di comunità-comunione, che fra di noi purtroppo non si avverte.

Mi sono imbattuta nel tempo in forum gestiti da preti e suore progressiste che non disdegnavano il bannare facile se ti azzardavi, prima dell’avvento di Benedetto XVI, a difendere la liturgia nella sua tradizione. Il presule avrebbe potuto motivare meglio tali differenze con gli evangelici dal momento che in Internet c’è una vera differenza fra i siti, blog e forum di matrice progressista da quelli tradizionali cattolici; problemi che gli evangelici non hanno, dal momento che sono preoccupati di evangelizzare principalmente i cattolici.

Il dramma dei cattolici nella rete, riguardo a molti forum, sta nell’invidia fra gruppi. La preoccupazione di taluni forum sta nell’audience, nelle classifiche, nel farsi notare dagli altri, nel sottolineare di essere gli unici. Sono pronti ad umiliare gli iscritti soprattutto di matrice tradizionale; molti di questi gruppi si scontrano con delle enormi contraddizioni:
— alcuni hanno una obbedienza al Papa idolatrica; di conseguenza diventa impossibile poter approfondire argomenti inerenti a delle scelte del Papa che, non avendo nulla a che fare con l’infallibilità, possono essere pacificamente discusse, ma a causa dell’incapacità di taluni gestori dal ban facile, si è costretti a tacere;
— altri pur sapendo di non sapere, non accettano che si porti il Magistero della Chiesa integralmente. Le proprie opinioni sono diventate le nuove verità da difendere a discapito della vera fede;
— ci sono altri ancora che nuotano nel sincretismo piú puro; hanno come regolamento il “volemose bene” al di là di che cosa sia la Verità.

Il presule ha dimenticato inoltre di annotare che il problema di coordinamento tra forum cattolici nasce anche qui da una difesa sbagliata del Concilio; un problema che appunto i siti evangelici non hanno. La prassi liturgica, la dottrina nel suo rituale, le norme che stabiliscono come si deve prendere la comunione ecc. sono problemi attuali che indubbiamente dividono i cattolici non solo nella rete ma anche fuori nella vita reale.

Se il presule non se ne fosse accorto (ma, vantandomi in Cristo, è necessario che dica che sono anni che lo vado scrivendo in Internet), i cattolici sono divisi: i movimenti navigano per conto loro sia nei loro territori sia nella rete; idem i francescani, i domenicani ecc. Ognuno cura il suo orticello; di conseguenza ciò che è la realtà quotidiana si riscontra nella rete.

Gli evangelici, assai piú furbamente, non sono divisi; sono indipendenti — è diverso — e si tengono uniti per una comune battaglia quella contro la Chiesa cattolica. Al contrario per noi cattolici seppur scoordinati — mi sia concesso dirlo — la battaglia comune è quella della propria identità; e non facciamo altro che rispecchiare la confusione che viviamo nella Chiesa, dove l’identità cattolica è davvero diventata motivo di discussione a causa, purtroppo, di 40 anni di apostasia e soprattutto di anarchia.

Ergo, i forum cattolici non fanno altro che rispecchiare in rete questi problemi; ma, per favore, evitiamo la diplomatica scelta di portarci come esempio gli evangelici. Per loro, il presule che ha detto queste cose, è un idolatra, ed eretico».


Prima di rispondere a Caterina, vorrei dire qualcosa in generale sul simposio. Mi fa piacere che la Chiesa si muova in questo campo; che si renda conto che il mondo sta cambiando, e cerchi di stare al passo coi tempi. Anche questo è un segno di vitalità della Chiesa: è la smentita — se mai ce ne fosse bisogno — che la Chiesa non vive nel passato, come taluni anticlericali d’altri tempi (loro, sí, rimasti ancorati a una visione ideologica totalmente superata) vorrebbero farci credere.

La mia preoccupazione è per le conseguenze di tali convegni. Mi spiego. Molti dei partecipanti a tali incontri fanno una certa fatica ad accostarsi a certi fenomeni, non per pregiudizio, non per rifiuto aprioristico, ma, il piú delle volte, per mere ragioni anagrafiche. Manca loro l’approccio “naturale” verso questi mezzi, proprio delle nuove generazioni, che sono nate e cresciute alla loro ombra. Per molti occorre fare uno sforzo reale di adattamento a certe novità. Niente di male; non è una colpa; è un fenomeno naturale. Io stesso, che pure non sono vecchissimo, faccio talvolta fatica a cogliere l’utilità e il funzionamento di certi nuovi strumenti (p. es., il “social network”).

Il rischio è che, proprio perché si deve fare uno sforzo per adattarsi ai nuovi mezzi di comunicazione, qualche volta li si sottovaluti (non riuscendo a coglierne le potenzialità) e qualche altra li si sopravvaluti (considerandoli una specie di strumenti magici). E si faccia fatica a prenderli per quello che essi in realtà sono: strumenti utili, ma che non possono essere in alcun modo assolutizzati.

Un altro pericolo è che, non sentendosi competenti in questo campo, spesso ci si affidi a sedicenti “esperti”, i quali il piú delle volte, approfittando della nostra buona fede, fiutano l’affare. Un avviso per tutti: quando qualche “tecnico” vi accosta, chiamandovi “Reverendo Padre” o “Eccellenza Reverendissima” e proponendovi progetti faraonici, diffidate; state pur certi che vuole far soldi alle vostre spalle.

Infine, c’è un altro rischio in cui è facile incorrere nella Chiesa: quello della pianificazione, della regolamentazione e dell’accentramento. Che ci sia bisogno di un coordinamento, non c’è dubbio; ma pensare che tutto debba essere controllato dalla diocesi o dal Vaticano, mi sembra totalmente fuori luogo. Anche nella Chiesa ci deve essere spazio per la “libera iniziativa”. I pastori, nella Chiesa, non sono gli unici da cui devono partire le iniziative; sono piuttosto quelli che “esaminano ogni cosa” (1 Ts 5:21), ne discernono l’autenticità e coordinano le iniziative dei fedeli. Nel simposio vaticano Mons. Celli ha pronunciato una frase rivelatrice: «I mezzi di comunicazione sociale sono lasciati all’iniziativa di individui o piccoli gruppi, ed entrano nella programmazione pastorale solo a livello secondario». Ecco la grande preoccupazione: la “programmazione pastorale”, che è diventata nella Chiesa qualcosa di molto simile alla “pianificazione economica” di sovietica memoria. Se qualcosa non rientra nella “programmazione pastorale”, non ha diritto di cittadinanza nella Chiesa.

Ed ecco che vengo al problema posto da Caterina. Concordo con lei sul quanto meno discutibile paragone con gli evangelici. È ovvio che l’erba del vicino è sempre piú verde. Personalmente, devo riconoscere di non frequentare siti evangelici, eccetto quelli biblici, che offrono una notevole ricchezza di testi e traduzioni. Sinceramente, non ho mai avuto occasione di imbattermi in siti protestanti anticattolici.

Ricordo solo che, quando ero giovane (a quel tempo Internet non esisteva ancora), ascoltavo frequentemente stazioni radio protestanti, e quel che mi colpiva positivamente era l’uso che facevano della radio per l’annuncio puro del Vangelo, senza la preoccupazione della cultura, dell’intrattenimento, ecc. Nulla a che vedere con la Radio Vaticana (l’unica stazione cattolica allora esistente; Radio Maria era di là da venire).

Ora — ci assicura il Presidente della Commissione episcopale europea per i media — «gli evangelici ascoltano e i cattolici parlano»; «gli evangelici escono da se stessi per mettersi come prima cosa al posto degli altri. Rispondono ai bisogni»; «la Chiesa cattolica parla forse partendo da se stessa senza prendere sufficientemente in considerazione ciò che vive la gente»; «i siti cattolici sono centrati su se stessi [e sono] considerati come strumenti e non come un mondo da evangelizzare; [sono] delle estensioni o dei duplicati dei nostri foglietti parrocchiali, dei nostri bollettini diocesani. Sono ad uso interno. Parlano una lingua per iniziati ad uso esclusivo degli iniziati. I siti evangelici, al contrario, vogliono raggiungere gli internauti, utilizzando Internet come strumento e vettore di evangelizzazione».

Sinceramente, mi sembrano belle frasi, a effetto; ma, dopo tutto, non cosí sensate. In qualche caso, di difficile comprensione. Che significa dire che i siti cattolici sono «considerati come strumenti e non come un mondo da evangelizzare», e poi affermate che, invece, gli evangelici usano Internet «come strumento e vettore di evangelizzazione»? Faccio difficoltà a cogliere la logica di tale ragionamento.

In ogni caso — e questo lo dico non solo ai partecipanti al simposio, ma anche a Caterina — non mi sembra proprio il caso di disperare. Non mi pare che noi cattolici siamo messi cosí male in questo campo: c’è un pullulare di siti, blog, forum, da fare invidia a chiunque (personalmente, non mi preoccuperei piú di tanto per la varietà delle presenze: il pluralismo è un segno della ricchezza e della vitalità della Chiesa). A sentire certi discorsi, sembra quasi che la Chiesa cattolica sia assente dalla rete. Beh, se per Chiesa cattolica si intende solo la Chiesa istituzionale, forse (ma non è vero neppure in tal caso, giacché la Santa Sede, tutte le diocesi e tutti gli istituti religiosi hanno il loro sito). Ma la Chiesa non è solo questa; ci sono anche i fedeli che, individualmente o in gruppo, affollano la rete, in maniera spesso artigianale; ma si tratta pur sempre di una presenza.

Ora, la mia preoccupazione è appunto quella che, oltre a possibili interventi dello Stato o dell’Unione Europea tesi a regolamentare (leggi: imbavagliare) la rete, adesso ci si metta anche la Chiesa, per inserire siti, blog e forum nella “programmazione pastorale”. Il che significherebbe la fine di tutto. Magari per avere su Internet il corrispondente di “Sat2000” televisivo, che costa una barca di soldi e nessuno segue. Beh, direi che è meglio tenerci i nostri poveri blog, lasciando che sia la “fantasia pastorale” e lo Spirito Santo a suggerirci come utilizzare al meglio questi nuovi strumenti per l’annuncio del Vangelo.

domenica 15 novembre 2009

XXXIII domenica "per annum"

«Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Gesú ci annuncia che cosa avverrà alla fine dei tempi: egli tornerà «sulle nubi con grande potenza e gloria». È uno degli articoli del Credo che professiamo: «E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti». È già venuto una prima volta, nell’umiltà e nella debolezza; tornerà una seconda volta «con grande potenza e gloria».

Quando avverrà ciò? «Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, eccetto il Padre». Se nessuno lo sa (neppure il Figlio!), significa che non è importante per noi conoscere il momento; è sufficiente sapere che «egli è vicino, è alle porte».

«Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo».

Il Signore, quando tornerà, che cosa verrà a fare? A radunare «i suoi eletti dai quattro venti». Nel Credo diciamo che verrà a giudicare i vivi e i morti: forse tale espressione può incuterci un po’ di timore; certo un timore salutare, perché fa bene temere il giudizio che ci attende. Ma Gesú qui ci presenta la stessa realtà in modo piú positivo: verrà a radunare i suoi eletti. Se noi siamo fra questi (e lo siamo!), che cosa temere? Dovremmo piuttosto essere animati da grande serenità e fiducia.

«In verità io vi dico: il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

La nostra serenità e fiducia si fondano sulle parole del Signore, piú stabili di qualsiasi altra realtà. Solitamente siamo portati a pensare che non ci sia nulla di piú stabile del cielo e della terra: tutto cambia, tutto passa; ma il cielo e la terra sono sempre lí, immutabili. Eppure Gesú ci assicura che anche il cielo e la terra passeranno. Solo le sue parole non passeranno. E questo perché lui rimane stabile per sempre: «Gesú Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13:8). Di che preoccuparci? Mentre tutto cambia, tutto passa, c’è qualcosa che rimane fermo, sempre identico a sé stesso: Gesú Cristo e le sue parole. Uniti a lui, siamo già partecipi dell’eternità: in mezzo agli sconvolgimenti del mondo, rimaniamo tranquilli, perché fondati su una roccia che non viene scossa neppure dalla fine di tutte le cose. «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

sabato 14 novembre 2009

Ancora sulla cremazione

Un lettore spagnolo, Martín, mi ha scritto a proposito del post di ieri sulla cremazione:


«Carissimo Padre, grazie per il Suo articolo, sono d’accordo al cento per cento. Qualche commento:

1) Mi sembra che questo atteggiamento è contrario allo spirito del Codice di diritto canonico, che dispone: “Enixe commendat Ecclesia, ut pia consuetudo defunctorum corpora sepeliendi servetur (= la Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti)” (can. 1176 §3). Cioè, non si tratta di una cosa neutra; noi abbiamo una consuetudine che esprime la nostra fede.

2) Che fede è la nostra se non è operosa, se non si manifesta, se si accontenta di seguire quello che tutti fanno o, peggio ancora, quello che il business consiglia, di che fede si tratta? Mi sa che Lei ha ragione, questo è un passo nel processo di neopaganizzazione.

3) Racconto brevemente, quello che so della realtà del mondo ispanico. A Santiago del Cile, la stessa arcidiocesi si è associata con un gruppo di imprenditori per iniziare l’affare delle cremazioni. Dopo la cremazione “cattolica” le ceneri sono messe in una apposita struttura costruita nel cortile delle parrocchie. Ci sono decine di rappresentanti che percorrono le parrocchie e le case offrendo questo “servizio”. Secondo la informazione che ho, lo scopo di questa operazione è... guadagnare soldi, tutto qui. Mi domando: e quello che dice il Codice di diritto canonico che la Chiesa “raccomanda vivamente”, dov’è? Come può la Chiesa “raccomandare vivamente” la sepoltura dei corpi se la stessa diocesi promuove la cremazione porta a porta? Secondo me questo è una vergogna. Mi viene da piangere quando penso alla fede nella risurrezione dei primi cristiani che hanno fatto chilometri e chilometri di gallerie per custodire i corpi dei morti. Sarebbe stato molto piú facile fare la cremazione come i pagani».


Martín tocca un altro punto, che avevo tralasciato nel mio post, ma di cui ero già a conoscenza. Come dicevo ieri, nelle Filippine la pratica della cremazione è diventata comune fra i cattolici. E anche lí si è già trasformata in un business. Non so se siano coinvolte le diocesi, ma certamente lo sono molti parroci (che costruiscono colombari nelle loro chiese per poi venderne i loculi) e soprattutto laici, i quali magari costruiscono santuari, che in realtà sono vere e proprie “necropoli”.

Penso che, se non altro, i nostri Vescovi, fra i vari “paletti” fissati per rendere ammissibile fra i cristiani il fenomeno delle cremazione, avrebbero dovuto considerare anche l’aspetto commerciale: evitare che il tutto si trasformi in un grosso business, magari con la partecipazione diretta della Chiesa. È vero che ogni cosa ha un risvolto commerciale (basta pensare alle nostre agenzie di pompe funebri); ma, come giustamente fa notare Martín, non sembra molto coerente per la Chiesa fare soldi con una pratica quanto meno contraria alla tradizione cristiana.

venerdì 13 novembre 2009

A proposito di cremazione

I Vescovi italiani, nell’Assemblea generale conclusasi ieri ad Assisi, hanno approvato la bozza del nuovo Rito delle esequie (se ne veda la notizia riportata da ZENIT). In tale nuovo Rito è prevista anche la possibilità di esequie anche a coloro che scelgono la cremazione.

Non si tratta di una novità: la Chiesa aveva già da tempo ammesso la cremazione, a condizione che non fosse dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana. Il fatto è che, finora, tale concessione sembrava solo una possibilità ipotetica, riservata a qualche tipo un po’ eccentrico. Ora invece sta diventando una prassi sempre piú diffusa. Ecco le cifre riportate da ZENIT: «In vent’anni si è passati dalle 3.600 cremazioni del 1987 alle quasi 60.000 del 2007».

È ovvio che la Chiesa non può rimanere indifferente di fronte ai fenomeni di massa come questo; è ovvio che deve in qualche modo intervenire, dando delle direttive e fissando dei paletti. In questo caso, la Chiesa italiana si era già pronunciata due anni fa con il sussidio pastorale Proclamiamo la tua risurrezione; ora interviene di nuovo con il Rito delle esequie. I Vescovi pongono dei limiti precisi: le ceneri non possono essere disperse e non possono essere conservate «in luoghi diversi dal cimitero». Mi pare il minimo, per potersi dire ancora cristiani.

Eppure, nonostante queste precise indicazioni, confesso che le nuove norme mi lasciano alquanto perplesso. Perché? Perché segnano una rottura con una ininterrotta tradizione. Non dimentichiamo che il Cristianesimo è nato in un tempo in cui l’incenerimento era prassi comune; eppure i cristiani scelsero l’inumazione, perché tale uso esprimeva meglio la loro fede nella risurrezione. Avrebbero potuto anche loro fare qualche “contorsione” teologica; ma non la fecero, perché il seppellimento del corpo era un segno che parlava da sé. I segni — lo sappiamo — sono di solito molto piú eloquenti di tanti giri di parole.

Ecco dove sta il problema: la nuova linea adottata dalla Chiesa, pur essendo teoricamente corretta, rischia di favorire il processo di secolarizzazione e “ripaganizzazione” della società. Accettare la cremazione, pur con tutte le precisazioni e i distinguo, trasmette un messaggio ben chiaro: non esiste risurrezione; dalla natura veniamo e alla natura torniamo.

Ma allora, che fare di fronte alla diffusione della cremazione anche fra i cattolici? So bene che si tratta di un fenomeno incontrollabile. Quando ero nelle Filippine mi sono reso conto che ormai tale pratica è diffusa anche fra il clero. Un giorno, al termine della Messa, rimasi interdetto, quando una signora, con un fagottino sotto braccio, mi chiese di benedire le ceneri del marito. Ma non credo che sia saggio limitarsi semplicemente a prendere atto della situazione; in qualche caso bisogna reagire, come fecero i primi cristiani. “Bisogna evangelizzare”, si dice. Certo, ma non si evangelizza solo con le parole; spesso un segno, un gesto, una pratica sono molto piú efficaci di tante prediche. Certa timidezza pastorale non paga; qualche volta, forse, dovremmo avere il coraggio di prendere posizioni nette e controcorrente anche di fronte a questioni apparentemente secondarie.

mercoledì 11 novembre 2009

E gli anglicani del "terzo mondo"?

David, come al solito, fa alcune considerazioni molto interessanti sulle possibili conseguenze della Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus:


«Quando nel 1993 un incendio distrusse parte del castello di Windsor, negli stessi giorni in cui la Chiesa anglicana nominava le prime “pastore” (ci hai fatto caso? certi liberal che si riempiono la bocca di neologismi cacofonici come “ministra” e “sindaca”, la parola “sacerdotessa” non va a genio e preferiscono parlare di donne prete o donne pastore... buffo il mondo!): con arguzia, il buon vecchio Il Sabato, il mai abbastanza rimpianto settimanale di CL, titolava: “Anglicani in fiamme”. Evidentemente, ci sono voluti tre lustri perché l’incendio divampasse in tutta la comunione anglicana e riducesse in polvere questa bizzarra “chiesa” i cui dogmi sono decisi dal Parlamento di Londra e che, forse piú di tutte le altre chiese “riformate”, si è inginocchiata davanti al mondo e alle sue mode.

Condivido in pieno la tua analisi: la Roma papista si è dimostrata materna e flessibile, là dove la liberale Canterbury era stata dura di cuore e ottusa.

Ora, però, converrà spostare lo sguardo dal centro amministrativo dell’anglicanesimo (una denominazione cattolica fra le piú “burocratiche”) alle sue membra (alcune piuttosto vivaci), sparse per i cinque continenti, dato che a torto fino a oggi l’attenzione si è concentrata solo sui circa cinquecentomila anglicani cattolici che risiedono in Inghilterra, in Australia e negli States.

Parliamo intanto di cifre: i fedeli anglicani nel mondo (compresi quelli americani, della “filiale” episcopaliana) sono circa 77 milioni, con 450 diocesi. Di questi, la maggior parte non risiede nel Regno Unito (17-18 milioni) ma in Nigeria (18 milioni). L’India ha il doppio di battezzati anglicani rispetto al Canada (4 vs 2 milioni). Allo stesso modo, Kenia e Sud Africa insieme hanno quattro volte piú fedeli della Chiesa Episcopaliana americana (8 vs 2 milioni). In Tanzania e Uganda l’anglicanesimo conta ben 11 milioni di membri, circa cinque volte piú numerosi che in tutto il Nord America.

È inutile dire che le chiese “di colore” sono tanto conservatrici e attaccate alla tradizione quanto quelle “bianche” sono liberal e modaiole. La stampa ha riportato storie interessanti su questo “incendio” che, come dicevo, ha frantumato l’anglicanesimo. Nel dicembre 2008 sette parrocchie in Virginia, contrarie alla nomina del gay Robinson, abbandonarono gli episcopaliani per seguire... la Chiesa anglicana della Nigeria, i cui leader affermano con orgoglio: “In Nigeria obbediamo alla Scrittura, sia conveniente o meno. Non è negoziabile”. Quando Williams avallò la legge inglese sui gay, i nigeriani abrogarono dallo statuto della loro comunità la frase “in comunione con Canterbury”, commentando:Se vogliono creare una nuova religione, good luck”.

C’è da chiedersi come reagiranno costoro ai grandi segni di vitalità e alla mano tesa in spirito di fraterna liberalità dal papa. Francamente, parlare di mezzo milione di fedeli in procinto di accettare il catechismo romano non ha molto senso: se la Madonna ci darà una mano (e mi permetto di dire, parafrasando Padre Pio, che — per come la conosco io — di certo lo farà), forse avremo almeno dieci milioni di africani anglicani a bussare alle porte di Roma nel giro di pochi anni, o addirittura di mesi.

Canterbury appare impotente, cosí come la maggior parte degli Evangelicals, in questo periodo di trasformazioni: si fa sentire un fenomeno poco studiato, ma degno di attenzione. Fra le conseguenze della recente crisi economica, c’è anche il disseccarsi del fiume di denaro che dal Nord America rimpinguava le casse di sette e comunità protestanti in giro per il mondo: chi, come la Chiesa cattolica, ha investito nell’Amore che guarisce e nella Verità che libera invece che in progetti faraonici e illusioni, probabilmente sa reagire meglio ai cambiamenti. Caro padre, non era anglicano quel Charles Darwin che teorizzò la sopravvivenza in natura del piú forte? Ecco, lo sbriciolamento proprio dell’anglicanesimo e la crescita lenta ma costante della Chiesa non è una conferma paradossale delle sue teorie? Il piú forte è la Chiesa Cattolica, l’anglicanesimo è condannato forse a estinguersi o a sopravvivere solo in poche nicchie protette».


Che ne sarà degli anglicani del “terzo mondo”? Domanda interessante, alla quale però, almeno per il momento, è difficile dare una risposta. Mentre si sentí parlare a lungo di loro in occasione dell’ordinazione episcopale di Robinson, con comunità episcopaliane che passarono alle Chiese anglicane del Sud America o dell’Africa, per quanto ne so, non si è ancora sentito parlare di loro in queste ultime vicende connesse con la disponibilità della Chiesa cattolica ad accogliere gruppi di anglicani in maniera “corporativa”.

Io non darei per scontata la loro accettazione dell’offerta papale; ma neppure mi sentirei di escluderla a priori. Il fatto di essere anglicani “tradizionalisti”, di per sé, non significa nulla: non significa essere piú vicini alla Chiesa cattolica. Anzi, un vero anglicano tradizionalista dovrebbe essere, a rigor di termini, anti-papista, essendo questo uno degli elementi caratteristici della tradizione anglicana. L’apertura verso Roma è segno di un’evoluzione, di una maturazione, di cui dobbiamo essere grati al movimento ecumenico (inteso in senso positivo). Ora, sinceramente, non so dire quale sia l’atteggiamento di queste Chiese anglicane dell’emisfero sud nei confronti della Chiesa cattolica. Spero che David abbia ragione; ma, per il momento, è meglio essere prudenti e non lasciarsi prendere da eccessivi entusiasmi, che alla lunga potrebbero essere delusi. Stiamo a guardare, con fiducia e preghiera, ma anche con un certo distacco e un sano realismo.

Oltre tutto, si tratta anche di una questione di rispetto verso questi nostri fratelli; cerchiamo di comprendere il loro dramma: per quanto il Papa si sia mostrato accogliente e generoso, non credo sia facile per uno che è vissuto finora in una determinata Chiesa, dire da un giorno all’altro: Cambio denominazione. Mi sembrano assai significative, in proposito, le dichiarazioni del Vescovo Broadhurst, Presidente di “Forward in Faith”: «Non risponderò alla domanda: “Cosa farete?”. È una cosa su cui dobbiamo lavorare insieme». Mi sembra il minimo che possa dire una persona seria.

Concordo con David sulla fiducia da avere nella Madonna: non c’è dubbio che, se lei ci mettere una “buona parola”, tutto sarà piú facile.

martedì 10 novembre 2009

"Anglicanorum coetibus"

Ho letto la Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus con le Norme complementari emanate dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ormai conoscevamo già a grandi linee il contenuto di tali documenti, per cui non provocano alcuna meraviglia. Eppure non si rimane indifferenti a leggere il loro testo ufficiale.

Il primo sentimento che ho provato è stato quello dello stupore nel constatare come la Chiesa cattolica sappia di volta in volta adattarsi alle diverse situazioni. Questo nuovo tipo di istituzione giuridica (gli “ordinariati personali”) non è prevista nel diritto canonico. Esistono già gli “ordinariati militari” (anch’essi assenti nel CJC e istituiti con speciale Costituzione apostolica), ma finora quel modello non era stato applicato ad alcun’altra categoria di fedeli.

Ora si è presentata una situazione nuova: gruppi di fedeli anglicani, con i loro pastori, hanno chiesto di essere accolti, in maniera “corporativa”, nella Chiesa cattolica. E questa che fa? Si inventa una nuova circoscrizione ecclesiastica personale apposta per loro, per venire incontro alla loro richiesta e per accontentarli nelle loro legittime aspirazioni.

L’unica condizione posta è stata: “Accettate il Catechismo della Chiesa cattolica?” Nient’altro. Una volta che si condivide la stessa fede, tutto è possibile; si trova sempre una soluzione. “Volete continuare a seguire le vostre tradizioni?”. No problem. “I vostri preti (sposati) vogliono continuare a essere preti?”. OK, verranno riordinati sacerdoti, rimanendo sposati. “I vostri vescovi vogliono continuare a essere i vostri pastori?”. È possibile: se celibi, possono essere ordinati vescovi e diventare “ordinari”; se sposati, possono essere ordinati sacerdoti, e diventare ugualmente “ordinari”; se non lo diventano, possono chiedere addirittura di usare le insegne episcopali e partecipare alla Conferenza episcopale come i vescovi emeriti.

Mi vien da dire: davvero non ci sono limiti alla fantasia! E ciò viene dalla Chiesa cattolica, che solitamente passa per essere conservatrice, tradizionalista, lenta nell’adeguarsi ai cambiamenti. Ma, a quanto pare, in questo caso i conservatori sono proprio gli anglicani. Sentite che cosa ha detto il Vescovo John Broadhurst, Presidente di “Forward in Faith”: «Sono rimasto inorridito per il fatto che la Chiesa d’Inghilterra, mentre cercava di soddisfarci, abbia ripetutamente affermato che non possiamo avere la giurisdizione e la vita indipendente di cui la maggior parte di noi pensa di aver bisogno per continuare il nostro pellegrinaggio cristiano. Ciò che Roma ha fatto è offrire esattamente ciò che la Chiesa d’Inghilterra ha rifiutato». Avete capito? Questi anglicani, che non accettavano le novità introdotte nella loro Chiesa, prima di rivolgersi alla Chiesa cattolica, si erano rivolti alla Chiesa d’Inghilterra, chiedendo di avere una legittima autonomia (in una Chiesa dove pure c’è sempre stato spazio per le posizioni piú diverse, talvolta addirittura contraddittorie); ma la risposta è stata negativa: “No, signori; per voi non c’è posto; o vi adeguate, o... arrangiatevi!”. Quel che non è stato concesso dalla liberale Chiesa d’Inghilterra è stato concesso dalla retriva Chiesa cattolica.

E questo è un segno di grande vitalità della Chiesa cattolica. Quelle Chiese che si considerano “aperte” e moderne, semplicemente perché concedono il sacerdozio alle donne o perché ammettono omosessuali praticanti all’episcopato o perché benedicono le coppie dello stesso sesso, in realtà sono Chiese “morte”. Staremo a vedere ora che cosa succederà; ma, se consistenti gruppi aderiranno alla Chiesa cattolica, la Comunione anglicana rischia di trasformarsi in una conventicola di pochi nostalgici esagitati.

Naturalmente non dobbiamo nasconderci le difficoltà che ci aspettano. Non tutto sarà facile. Già leggendo la Costituzione apostolica e le Norme annesse si percepisce una certa confusione che inevitabilmente verrà a crearsi per la sovrapposizione dei nuovi ordinariati alle circoscrizioni territoriali esistenti (le diocesi). Negli stessi documenti emergono alcune situazioni difficilmente sanabili: i preti in situazioni matrimoniali irregolari e i sacerdoti cattolici che erano passati all’Anglicanesimo per potersi sposare. Aggiungiamoci poi le difficoltà che preti e comunità incontreranno con le Chiese di origine, soprattutto per motivi economici. Non dimentichiamo infine che, per quanto “tradizionalisti”, questi anglicani provengono da ambienti ultraliberali, per cui, inevitabilmente porteranno con sé una certa mentalità, che in qualche caso scontrerà con la tradizione cattolica. Si tratta di difficoltà reali, che non possiamo nasconderci, ma che neppure devono bloccarci: sono le difficoltà caratteristiche di una realtà vivente.

Per intanto, godiamoci questo momento di grazia; e ringraziamo il Signore, che ci dimostra, anche attraverso queste vicende, che la Chiesa cattolica (quella Chiesa data da molti per spacciata e da noi stessi spesso criticata per i suoi limiti e i suoi errori) è la vera Chiesa, della quale noi — indegnamente, ma con fierezza — facciamo parte.

lunedì 9 novembre 2009

Paolo VI e la Chiesa

Dall’omelia di Benedetto XVI a Brescia, in Piazza Paolo VI (8 novembre 2009):

«Cari amici! A partire da questa icona evangelica [della povera vedova], desidero meditare brevemente sul mistero della Chiesa, del Tempio vivo di Dio, e cosí rendere omaggio alla memoria del grande Papa Paolo VI, che alla Chiesa ha consacrato tutta la sua vita. La Chiesa è un organismo spirituale concreto che prolunga nello spazio e nel tempo l’oblazione del Figlio di Dio, un sacrificio apparentemente insignificante rispetto alle dimensioni del mondo e della storia, ma decisivo agli occhi di Dio. Come dice la Lettera agli Ebrei — anche nel testo che abbiamo ascoltato — a Dio è bastato il sacrificio di Gesú, offerto “una volta sola”, per salvare il mondo intero (cf Eb 9:26.28), perché in quell’unica oblazione è condensato tutto l’Amore del Figlio di Dio fattosi uomo, come nel gesto della vedova è concentrato tutto l’amore di quella donna per Dio e per i fratelli: non manca niente e niente vi si potrebbe aggiungere. La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesú, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento. È il Corpo di Cristo che si dona interamente, Corpo spezzato e condiviso, in costante adesione alla volontà del suo Capo. [...]

È questa la Chiesa che il servo di Dio Paolo VI ha amato di amore appassionato e ha cercato con tutte le sue forze di far comprendere e amare. Rileggiamo il suo Pensiero alla morte, là dove, nella parte conclusiva, parla della Chiesa. “Potrei dire — scrive — che sempre l’ho amata ... e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse”. Sono gli accenti di un cuore palpitante, che cosí prosegue: “Vorrei finalmente comprenderla tutta, nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei — continua il Papa — abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla”. E le ultime parole sono per lei, come alla sposa di tutta la vita: “E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità; e cammina povera, cioè libera, forte ed amorosa verso Cristo”.

Che cosa si può aggiungere a parole cosí alte ed intense? Soltanto vorrei sottolineare quest’ultima visione della Chiesa “povera e libera”, che richiama la figura evangelica della vedova. Cosí dev’essere la Comunità ecclesiale, per riuscire a parlare all’umanità contemporanea. L’incontro e il dialogo della Chiesa con l’umanità di questo nostro tempo stavano particolarmente a cuore a Giovanni Battista Montini in tutte le stagioni della sua vita, dai primi anni di sacerdozio fino al Pontificato. Egli ha dedicato tutte le sue energie al servizio di una Chiesa il piú possibile conforme al suo Signore Gesú Cristo, cosí che, incontrando lei, l’uomo contemporaneo possa incontrare Lui, Cristo, perché di Lui ha assoluto bisogno. Questo è l’anelito di fondo del Concilio Vaticano II, a cui corrisponde la riflessione del Papa Paolo VI sulla Chiesa. Egli volle esporne programmaticamente alcuni punti salienti nella sua prima Enciclica, Ecclesiam suam, del 6 agosto 1964, quando ancora non avevano visto la luce le Costituzioni conciliari Lumen gentium e Gaudium et spes.

Con quella prima Enciclica il Pontefice si proponeva di spiegare a tutti l’importanza della Chiesa per la salvezza dell’umanità e, al tempo stesso, l’esigenza che tra la Comunità ecclesiale e la società si stabilisca un rapporto di mutua conoscenza e di amore (cf Enchiridion Vaticanum, 2, p. 199, n. 164). “Coscienza”, “rinnovamento”, “dialogo”: queste le tre parole scelte da Paolo VI per esprimere i suoi “pensieri” dominanti — come lui li definisce — all’inizio del ministero petrino, e tutt’e tre riguardano la Chiesa. Anzitutto, l’esigenza che essa approfondisca la coscienza di se stessa: origine, natura, missione, destino finale; in secondo luogo, il suo bisogno di rinnovarsi e purificarsi guardando al modello che è Cristo; infine, il problema delle sue relazioni con il mondo moderno (cf ibid., pp. 203-205, nn. 166-168). Cari amici — e mi rivolgo in modo speciale ai Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio —, come non vedere che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale? Che, anzi, gli sviluppi della secolarizzazione e della globalizzazione l’hanno resa ancora piú radicale, nel confronto con l’oblio di Dio, da una parte, e con le religioni non cristiane, dall’altra? La riflessione di Papa Montini sulla Chiesa è piú che mai attuale; e piú ancora è prezioso l’esempio del suo amore per lei, inscindibile da quello per Cristo. “Il mistero della Chiesa — leggiamo sempre nell’Enciclica Ecclesiam suam — non è semplice oggetto di conoscenza teologica, dev’essere un fatto vissuto, in cui ancora prima di una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza” (ibid., p. 229, n. 178). Questo presuppone una robusta vita interiore, che è — cosí continua il Papa — “la grande sorgente della spiritualità della Chiesa, modo suo proprio di ricevere le irradiazioni dello Spirito di Cristo, espressione radicale e insostituibile della sua attività religiosa e sociale, inviolabile difesa e risorgente energia nel suo difficile contatto col mondo profano” (ibid., p. 231, n. 179). Proprio il cristiano aperto, la Chiesa aperta al mondo hanno bisogno di una robusta vita interiore.

Carissimi, che dono inestimabile per la Chiesa la lezione del Servo di Dio Paolo VI! E com’è entusiasmante ogni volta rimettersi alla sua scuola! È una lezione che riguarda tutti e impegna tutti, secondo i diversi doni e ministeri di cui è ricco il Popolo di Dio, per l’azione dello Spirito Santo. In questo Anno Sacerdotale mi piace sottolineare come essa interessi e coinvolga in modo particolare i sacerdoti, ai quali Papa Montini riservò sempre un affetto e una sollecitudine speciali. Nell’Enciclica sul celibato sacerdotale egli scrisse: “«Preso da Cristo Gesú» (Fil 3,12) fino all’abbandono di tutto se stesso a lui, il sacerdote si configura piú perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’eterno Sacerdote ha amato la Chiesa suo corpo, offrendo tutto se stesso per lei... La verginità consacrata dei sacri ministri manifesta infatti l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio” (Sacerdotalis caelibatus, 26). Dedico queste parole del grande Papa ai numerosi sacerdoti della Diocesi di Brescia, qui ben rappresentati, come pure ai giovani che si stanno formando nel Seminario. E vorrei ricordare anche quelle che Paolo VI rivolse agli alunni del Seminario Lombardo il 7 dicembre 1968, mentre le difficoltà del post-Concilio si sommavano con i fermenti del mondo giovanile: “Tanti — disse — si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesú Cristo, a cui preme la sua Chiesa piú che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta... Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensí di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione che Gesú ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza. Anche il Papa ha bisogno di essere aiutato con la preghiera” (Insegnamenti, VI, [1968], 1189)».

© Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana

domenica 8 novembre 2009

XXXII domenica "per annum"

È una forma di materialismo misurare la generosità dalla quantità del dono: chi dà di piú è piú generoso di chi dà di meno. Circondiamo di gratitudine e di onore i grandi benefattori; ignoriamo l’obolo insignificante della vedova. E non ci rendiamo conto di quanto sia costata la rispettiva offerta del ricco e del povero.

Non che la quantità del dono non abbia la sua importanza; essa però non può essere misurata assolutamente, ma solo in relazione con la quantità di ciò che si possiede. Se il mio dono è grande, ma è solo parte del mio superfluo, esso non vale nulla; se il mio dono è piccolo, ma è tutto ciò che possiedo, esso ha un valore inestimabile:

«In verità io vi dico: questa vedova, cosí povera, ha gettato nel tesoro piú di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

La quantità è importante, perché Dio vuole tutto. Il nostro Dio è un Dio esigente; non si accontenta di “qualcosa”, fosse pure oggettivamente tanto; vuole “tutto”, tanto o poco che sia, non importa; ciò che conta è che sia “tutto”.

Di fronte a Lui non conta essere poveri o essere ricchi; conta essere generosi. Nessuno è cosí povero da non avere niente da donare: per quanto abbia poco, ha sempre qualcosa da poter dare. E Dio gli chiede di dare quel poco che ha, e di darlo in maniera totale.

venerdì 6 novembre 2009

Appello al Papa per un'arte autenticamente cattolica

Ho appena sottoscritto l’Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un’arte autenticamente cattolica. Potete leggerlo al seguente indirizzo: http://appelloalpapa.blogspot.com/. Nel medesimo sito troverete le indicazioni per sottoscrivere l’appello.

Mi sembra che si tratti di un appello ampiamente condivisibile, completo ed equilibrato. Ci si ritrovano praticamente tutti gli elementi di un’arte autenticamente cristiana: il suo fondamento teologico (il mistero dell’incarnazione); la sua natura ancillare rispetto alla liturgia; l’arte sacra come espressione di fede e di vita cristiana vissuta; il collegamento con la tradizione; la necessità di una formazione artistica del clero e di una formazione liturgico-spirituale degli artisti; l’opportunità della definizione di alcuni “canoni” artistici; ecc.

L’appello evita saggiamente ogni accenno polemico e sottolinea positivamente la continuità nella Chiesa. È molto significativo — e per me motivo di grande soddisfazione — che esso prenda le mosse dal Discorso di Paolo VI agli artisti nel 1964.

Esprimo le mie congratulazioni ai promotori dell’appello; mi auguro che esso possa portare abbondanti frutti nella vita della Chiesa; e invito i lettori che lo desiderino a sottoscriverlo.

giovedì 5 novembre 2009

Mysterium iniquitatis

Ricevo da David e pubblico:


«“Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene”. Quel qualcosa o qualcuno, il katéchon appunto, che impedisce la manifestazione piena dell’Anticristo è uno dei nodi piú enigmatici delle Scritture. Nell’attuale contesto storico, la funzione di katéchon è svolta anche da un articolo della Costituzione italiana, precisamente dal settimo, che recita: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Non sono i contenuti dei Patti ad avere questa “blindatura” costituzionale ma la forma concordataria delle relazioni fra la Chiesa Cattolica (si badi bene, la Chiesa, non lo Stato della Città del Vaticano): nessun Governo della Repubblica potrebbe, unilateralmente, rompere i Patti o sottoporre le relazioni con la Chiesa a un regime diverso da quello stabilito, con consenso di entrambe le parti, dal concordato. È facile capire che, senza questa robusta garanzia (voluta, si badi bene, da Giuseppe Dossetti, non certo da un cattolico reazionario), la Chiesa romana sarebbe messa male come la nave dei sogni di don Bosco, che era appunto la Chiesa dell’epoca di Papa Mastai Ferretti e dei suoi successori fino a Papa Ratti. Ora, la Corte europea dei diritti di Strasburgo si insinua — deliberando sulla questione niente affatto simbolica dei crocifissi — nei rapporti fra il nostro Paese e la Santa Sede. Occorre precisare che non è un’istituzione dell’Unione Europea e non va confusa con la Corte di giustizia, che invece lo è. La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata istituita dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per assicurarne il rispetto. Mi domando quanto questa giungla di tribunali, trattati e istituzioni sovranazionali possa mettere in pericolo la solidità dell’articolo 7 e del nostro katékhon in futuro: se passerà il principio che una parte, anche piccola, del Concordato viola addirittura i diritti dell’uomo, beh c’è da chiedersi se non farà la stessa fine l’insegnamento della religione cattolica. Che dire poi dei rapporti economici fra lo Stato e la Chiesa? In un mondo in cui l’aborto potrebbe presto diventare un diritto dell’uomo e le critiche allo stile di vita gay un crimine da punire con tanto di gendarmi, chi può garantire che il Vaticano come istituzione non finisca presto nel mirino? Pensa solo all’ultimo Sinodo sull’Africa e domàndati se i Signori di questo mondo abbiano gradito... Mi dirai che è impossibile; in fondo la Santa Sede ha tanti Stati amici e un prestigio internazionale notevole. Ti dirò: al congresso di Parigi del 1856 le critiche allo Stato Pontificio e al Regno delle Due Sicilie, suo grande amico, anticiparono di pochi anni la spedizione dei Mille e nella presa di Porta Pia. Vuoi vedere che a pensar male si sbaglia, ma ci si azzecca sempre?».


Ringrazio David per la precisazione, quanto mai opportuna, che la Corte europea dei diritti dell’uomo non è una istituzione dell’Unione Europea. Condivido, allo stesso tempo, la preoccupazione per “questa giungla di tribunali, trattati e istituzioni sovranazionali”, che sono saldamente in mano a poteri oscuri e sfuggono a qualsiasi controllo democratico. Tale sentenza è solo un “assaggio” di quanto ci attende in futuro: i nostri spazi di libertà si stanno via via riducendo; senza accorgercene, ci stiamo a poco a poco incamminando verso un regime totalitario.

Condivido anche l’applicazione del concetto di katechon alla realtà italiana. Effettivamente dobbiamo essere grati alla Costituzione italiana per aver garantito in questi anni alla Chiesa una piena libertà di movimento. Una laicità positiva opposta al giacobinismo imperante nelle istituzioni europee.

Tale katechon verrà tolto di mezzo dall’Europa? Speriamo di no. La sollevazione — direi pressoché unanime — di questi giorni in Italia, mi sembra un buon segnale. So bene che non c’è da farsi illusioni: è ovvio che questa reazione bipartisan non significa che gli italiani sono tutti dei buoni cattolici. Ma non importa. Anche il solo attaccamento esteriore a questo simbolo della nostra fede è di un’importanza fondamentale. Non facciamo l’errore di cadere nel fondamentalismo cattolico, per cui solo i praticanti sono buoni cristiani. È importante che quel simbolo resti appeso alle pareti delle scuole e dei luoghi pubblici, perché, in tal modo, rimarrà per tutti un salvagente a cui aggrapparsi nei momenti di pericolo.

La Santa Sede in pericolo? Tutto è possibile: la storia ci insegna che il Papato ha dovuto subire nel corso dei secoli le prove piú dure; ma ne è sempre uscito vittorioso. Dove sono ora quei potenti che in passato si illusero di eliminarlo? La Sede Apostolica invece è ancora lí, pronta a sfidare i potenti di turno. I quali dovrebbero essere imparare qualcosa dalla storia; ma so che non lo faranno, essendo essi solo le marionette di un “mistero di iniquità” che le trascende.

mercoledì 4 novembre 2009

Fatemi uscire dall'Unione Europea

Sicché la Corte europea per i diritti umani ha sentenziato che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane costituisce una violazione alla libertà di religione degli alunni.

Se qualcuno si chiedeva a che cosa sarebbe servita l’Europa, eccolo servito: ora ha la risposta alla sua domanda. Finora l’Europa s’era limitata a rifiutare di riconoscere le proprie radici cristiane: beh — pensavamo — poco male; se l’Europa vuole essere laica, che lo sia pure; l’importante è che ci lasci liberi di credere in ciò che vogliamo e di esprimere liberamente le nostre convinzioni.

Ora capiamo come intende l’Europa la libertà religiosa: per rispettare la libertà religiosa delle minoranze, la maggioranza non può esprimere la propria fede. Le minoranze hanno diritto a essere tutelate; la maggioranza, no. Per essa non esiste libertà religiosa. Esporre il simbolo della sua fede non fa parte della sua libertà; è una violazione della libertà altrui. Si è liberi di professare qualsiasi religione; si è liberi di non professarne alcuna; non si è liberi di essere e apparire cristiani.

In questa Europa l’omofobia è un crimine; se qualcuno si permette di mettere in discussione i dogmi connessi con l’Olocausto finisce in prigione; in questi casi la Corte europea non si preoccupa dei diritti di chi non crede nelle “nuove religioni”. Solo quando si tratta di Cristianesimo nasce la preoccupazione per la tutela dei non-credenti.

Mi chiedo: ma che cosa ci stiamo a fare in questa Europa? che cosa aspettiamo a uscirne? Chiedo se sia possibile, almeno a titolo personale, uscire dall’Unione Europea: non la sento la mia patria; anzi mi vergogno di essa. Non ho sottoscritto il Trattato di Lisbona. Non voglio saperne di questa Europa massonica. Non voglio piú essere considerato cittadino europeo e voglio che sia cancellata dal mio passaporto la scritta “Unione Europea”: la considero una violazione della mia libertà personale. Farò ricorso alla Corte europea per i diritti umani: chissà se i miei diritti troveranno tutela...

lunedì 2 novembre 2009

Prudenza o decisione?

Scusate se in questi giorni c'è stata una certa irregolarità nell'aggiornamento del blog. Ero in viaggio. Ho terminato la mia missione in Asia e sono tornato in Italia. Un giorno o l'altro vi racconterò qualcosa della mia esperienza missionaria.

Nel frattempo, Caterina ha inviato questo feedback al mio post di venerdí scorso sulla “riforma della riforma”:


«Condivido in toto quanto ha detto specialmente nell’elencare il susseguirsi di documenti davvero magisteriali a riguardo dell’Eucarestia, della Messa e della Liturgia in senso ampio. Le condivido alcune perplessità che mi sorgono anche in qualità di catechista ed operativa in diverse parrocchie. Lei giustamente dice e fa osservare che:

“Il problema era — ed è — la mentalità: se rimane l’idea che la Messa la invento io sacerdote con la mia creatività e fantasia pastorale, non ci sarà mai rubrica che tenga. Il problema è: come cambiare la mentalità di buona parte del clero, che è stato formato a questo senso di creatività senza limiti? Per il momento, non ho una risposta da dare”.

Però poi una risposta involontariamente la dà sopra dove dice:

“Anche su questo orientamento generale, non posso non convenire, essendo sempre stato del parere che ciò che rende la liturgia bella non è tanto questo o quel rito, questa o quella rubrica, ma il modo in cui si celebra. Anch’io non vedrei molto bene uno stravolgimento dell’attuale Ordo Missae (che, come ho ripetuto piú volte, trovo equilibrato e ben fatto); ma sono pienamente d’accordo che c’è da recuperare, come dice il Cardinale, «il senso del mistero»”.

Ebbe modo di dire l’allora card. Ratzinger che “la Liturgia della Messa, il rito, non può diventare luogo di sperimentazioni teologiche, dottrinali e liturgiche”. Questa denuncia ci sottolinea, come lei stesso sottolinea, che il concetto stesso di “creatività” (denunciata per altro nel MP di Benedetto XVI) è diventato il passepartout di certa sperimentazione della quale ora non se ne può piú fare a meno se non intervenendo drasticamente (se necessario) per debellarne l’espandersi.

Non si espande piú forse è vero, ma la mentalità è rimasta; e non accennano a diminuire una catechesi e una pastorale volte al diffondersi della creatività liturgica. Se lei prova ad interpellare i Movimenti sulla Riforma di Benedetto XVI si sentirà rispondere: “Non riguarda noi!”. E infatti essi stanno andando avanti come se la questione non li riguardasse; quando invece, in certi casi, essi sono davvero i primi destinatari con le Parrocchie, di questa Riforma.

La mentalità e l’azione diretta della Riforma vanno di pari passo, quello che manca, a mio parere, è il ricorso alla famosa ed evangelica “correzione fraterna” che si ha quasi paura di citare perché nessuno ama oggi sentirsi correggere; sembra quasi una offesa. Nelle nostre Parrocchie (parlo naturalmente della nostra situazione, che conosco direttamente) è vietato quasi parlare di questa Riforma, molti parroci ancora oggi dicono: “Non riguarda noi!”. E di fatti all’umile richiesta, per esempio, di inserire alle due file centrali della Comunione ai fedeli un inginocchiatoio per lasciare la libertà ai fedeli che volessero di usarlo, la risposta è un “NO” categorico, senza appello e ancora con la mentalità errata che dice: “Il Concilio lo ha tolto!”. C’è un muro contro muro fatto da una mentalità cresciuta e formata nell’errore, ma anche testarda a non volersi far correggere.

La risposta da dare ce l’avremo pure, caro padre Giovanni, e sono sicura che la pazienza e la carità nella Verità premiano molto piú della linea dura ed impositiva; ma non sarebbe anche il caso di cominciare a pretendere che certa Verità (maiuscola) non venga piú offuscata con la scusa che nulla va imposto? Perché, se continuiamo cosí, ciò che continuerà a essere imposta nelle Parrocchie è proprio una linea falsa e incoerente».


Penso che Caterina abbia ragione a dire che nella Chiesa odierna ci sia un «muro contro muro». E credo che sia proprio la consapevolezza di questa contrapposizione che spinga il Santo Padre a muoversi con estrema circospezione. Il Papa sa che, intervenendo con maggiore decisione, otterrebbe il contrario di quel che desidera. Anche se i tempi sono cambiati per tutti, non è pensabile di sradicare con qualche provvedimento di autorità una mentalità radicata in larghi settori della Chiesa. Radicata, perché per tanti anni essa è stata diffusa ai massimi livelli: sembrava che certi atteggiamenti fossero gli unici possibili “dopo il Concilio”. Ora invece ci si rende conto che quella mentalità, pur contenendo una parte di verità, era troppo di parte. Benedetto XVI non dice (come alcuni tradizionalisti): ciò che è stato fatto durante e dopo il Concilio è tutto sbagliato; bisogna abolirlo e tornare a prima del Concilio. Quel che Papa Ratzinger dice è semplicemente di trovare un nuovo equilibrio, che reinterpreti le novità conciliari e postconciliari alla luce della tradizione. Un discorso che dovrebbe essere ovvio, ma che non lo è per molti. Molti vedono in esso una sconfessione del Vaticano II e perciò vi si oppongono. Benedetto XVI ne è perfettamente consapevole, e per tale motivo si muove con grande prudenza.

Sarà, questo atteggiamento, quello vincente? Oppure è necessario, come sembra suggerire Caterina, un intervento piú deciso? Sinceramente, non saprei rispondere. Anch’io, per carattere e per convinzione, sono portato a seguire il metodo Ratzinger, estremamente rispettoso delle persone. Ma, allo stesso tempo, nutro qualche dubbio sulla sua efficacia; per cui non vedrei male una maggiore decisione. Come potete vedere, mi trovo diviso. E per questo mi rimetto alla prudenza del Santo Padre. Nel suo caso, la prudenza, oltre a essere una virtú umana, è arricchita di una speciale grazia di stato. Lasciamo che sia lui a decidere non solo che cosa è meglio per la Chiesa oggi, ma anche i modi per attuare questa riforma.

domenica 1 novembre 2009

Ognissanti

Quando si è bambini, si ha la massima stima e fiducia di alcune persone (i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, ecc.); a scuola ci educano al culto degli eroi; al catechismo ci propongono l’esempio dei santi. Anche se sappiamo che nel mondo ci sono alcuni “cattivi” (da cui dobbiamo guardarci attentamente), siamo convinti che la maggior parte dell’umanità sia “buona”. Poi, col passare degli anni, a poco a poco, incominciamo ad aprire gli occhi e ad accorgerci che la realtà è un tantino diversa da come ci era stata dipinta: scopriamo che i genitori non sono cosí perfetti come ce l’immaginavamo; gli insegnanti cosí sapienti come avevamo creduto; i sacerdoti cosí santi come ci erano apparsi. Studiando piú seriamente la storia, veniamo a sapere che quelli che ci erano stati presentati come eroi non erano poi tali. L’unica categoria che tiene sembrerebbe quella dei santi. OK, gli uomini sono quello che sono, però ci sono stati almeno alcuni che sono stati capaci di vivere a pieno la loro umanità. Leggendo le vite dei santi, restiamo affascinati dal loro esempio e nasce in noi il desiderio di imitarli: Si ille et iste, cur non ego?

Gli anni continuano a passare e ci accorgiamo che non è poi cosí facile riprodurre in noi l’esempio dei santi. Quello che era stato un motivo di entusiasmo e di fervore, diventa un motivo di frustrazione. A poco a poco incomincia a insinuarsi un dubbio: ma sarà poi vero che i santi hanno fatto quel che ne scrivono gli agiografi? Divenuti sempre piú scettici e vittime dello spirito ipercritico, incominciamo a sospettare che si tratti esclusivamente di un genere letterario. E cosí, sotto la spinta di nuove scoperte e rivelazioni, anche l’immagine dei santi comincia a ridimensionarsi. Giusto un esempio: Madre Teresa, che avevamo sempre immaginato completamente assorta in Dio, per anni visse nella piú assoluta oscurità e aridità. Ma allora... anche lei era come noi?

Sí, anche lei era come noi. Tutti i santi erano come noi, dei poveri uomini come noi, peccatori come noi. Allora incominciamo a capire che certe cose strane che leggevamo nelle vite dei santi avevano un senso: quando dicevano di essere dei peccatori, non era un modo di dire, né tanto meno una forma di umiltà pelosa; era la pura e semplice verità. Quando leggevamo che si confessavano tutti i giorni, non era perché fossero scrupolosi, ma perché sentivano effettivamente il bisogno della misericordia di Dio. Quando ci parlavano delle loro tentazioni e noi pensavamo che si trattasse di una specie di commedia, in realtà avevano sperimentato le stesse tentazioni che noi quotidianamente sperimentiamo e, lungi dall’averle sempre superate vittoriosamente, spesso forse ci sono caduti come noi quasi immancabilmente ci cadiamo. A quel punto i santi cessano di essere gli eroi a cui guardavamo con ammirazione (e frustrazione) e cominciano a essere nostri fratelli, in tutto simili a noi.

Ma allora dove sta la loro santità? Non sta certo nei loro sforzi, molto probabilmente destinati al fallimento come i nostri; ma nella grazia, che si è servita di loro, nonostante i loro limiti e le loro debolezze (o forse proprio per questo), per compiere meraviglie. L’unico grande merito dei santi è stato quello di aver permesso alla grazia di operare in loro. Quest’oggi, prima che celebrare le virtú e i meriti dei santi, celebriamo la grazia di Dio, che ha saputo trasformare delle povere creature in strumenti della sua potenza.

venerdì 30 ottobre 2009

Prima conferma di "riforma della riforma"

Ieri La Stampa ha riferito dell’intervista rilasciata dal Cardinale Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto divino, rilasciata a Catalunya Cristiana. Mi sembra un’intervista importante, perché conferma in maniera definitiva che il suddetto dicastero vaticano sta effettivamente lavorando alla “riforma della riforma”, di cui da molto tempo si parla, ma finora poco o nulla si è visto. Alcuni mesi fa Andrea Tornielli, solitamente bene informato, aveva rivelato qualcosa a proposito della “Plenaria” della Congregazione, ma c’era stata un’immediata smentita.

Ora, finalmente, Cañizares, pur rimanendo sulle generali, ammette per la prima volta in pubblico che il suo dicastero ha lavorato intensamente e ha stilato delle proposte che il Santo Padre ha approvato e che costituiscono la base del prosieguo dei lavori. Obiettivo che la Congregazione si propone: «Rivitalizzare lo spirito della liturgia in tutto il mondo». Fin qui, non si può che essere d’accordo, in linea di principio, con Sua Eminenza. Il quale però non scende a maggiori particolari, limitandosi a dire: «Questo non significa semplicemente cambiare rubriche o introdurre nuove cose, ma si tratta semplicemente che la liturgia deve essere vissuta e che deve essere al centro della vita della Chiesa». Anche su questo orientamento generale, non posso non convenire, essendo sempre stato del parere che ciò che rende la liturgia bella non è tanto questo o quel rito, questa o quella rubrica, ma il modo in cui si celebra. Anch’io non vedrei molto bene uno stravolgimento dell’attuale Ordo Missae (che, come ho ripetuto piú volte, trovo equilibrato e ben fatto); ma sono pienamente d’accordo che c’è da recuperare, come dice il Cardinale, «il senso del mistero».

Sua Eminenza non va oltre. Né conferma né smentisce le indiscrezioni estive di Tornielli (recupero del latino, comunione in bocca, orientamento versus absidem almeno durante la consacrazione). Per il momento va bene cosí: sapere che si sta effettivamente lavorando per rivitalizzare la liturgia. Per quanto riguarda i ritocchi formali, non c’è nessuna fretta: prudenza vuole che si ponderi bene qualsiasi tipo di intervento.

L’unica perplessità che mi rimane è che questi discorsi, che — ripeto — condivido pienamente, li ho sempre sentiti: non sono affatto una novità. Quante istruzioni in materia liturgica sono state emanate in questi anni per prevenire e reprimere gli abusi? Tanto per ricordare i piú recenti sforzi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI riguardo all’Eucaristia: enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – ottobre 2005), Sinodo sull’Eucaristia (ottobre 2005), esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007). Per carità, non si può dire che nulla sia cambiato; certamente non si vedono piú tanti abusi a cui eravamo abituati negli anni immediatamente successivi al Concilio (ricordo una Messa durante la quale la lettura del Vangelo fu sostituita dalla lettura del giornale...); eppure si ha l’impressione che tutti questi sforzi non abbiano partorito i risultati sperati. Sarà, questa, la volta buona? Speriamo; ma, se devo essere sincero, nutro qualche dubbio. Sono sempre stato del parere che, se solo lo si fosse voluto, si sarebbe potuto celebrare decorosamente col Messale che attualmente abbiamo in mano: era sufficiente attuare alla lettera le rubriche in esso contenute. Il problema era — ed è — la mentalità: se rimane l’idea che la Messa la invento io sacerdote con la mia creatività e fantasia pastorale, non ci sarà mai rubrica che tenga. Il problema è: come cambiare la mentalità di buona parte del clero, che è stato formato a questo senso di creatività senza limiti? Per il momento, non ho una risposta da dare.