lunedì 14 giugno 2010

Il martirio di Mons. Padovese e lo "scontro di civiltà"

Una volta tanto, pienamente condivisibile l’intervento di Alberto Melloni sul Corriere di oggi, a proposito del martirio di Mons. Luigi Padovese. Si tratta di una risposta a chi vorrebbe strumentalizzare l’episodio a fini politici. Non è mancato nei giorni scorsi, fra i neocon di casa nostra, chi avrebbe gradito che la Chiesa indicesse una nuova crociata contro i saraceni per vendicare l’uccisione del Vescovo missionario. Giustamente controbatte Melloni: «Un martirio che non sia occasione per predicare il vangelo dell’amore dei nemici, del perdono di chi uccide, sarebbe vilipeso: anche oggi, con buona pace dei post-huntingtoniani» (i seguaci cioè di Samuel P. Huntington, teorico dello “scontro delle civiltà”). Molto bella la riflessione finale, che collega il martirio di Mons. Padovese al momento critico che sta vivendo la Chiesa:

«In questi tempi grigissimi, nei quali la bufera scuote la chiesa, il segno del martirio torna dunque come un segno di grazia, una consolazione a caro prezzo ... Nella chiesa, senza nulla togliere alla gravità dei crimini per i quali chiedere perdono a Dio, permane una riserva di mitezza, di umiltà disarmata, di semplicità di vita che come tale espone alla violenza, sia essa folle o ispirata, e che fa da contrappeso invisibile alle meschinità che la insidiano, da fuori e da dentro».

A qualcuno tale atteggiamento potrà apparire arrendevole, rinunciatario, se non addirittura imbelle. In realtà, si tratta dell’unico atteggiamento possibile per un cristiano: le stesse vittime, che — non dimentichiamolo — hanno amato profondamente i loro carnefici, non tollererebbero che qualcuno si sentisse autorizzato a “vendicare” il loro sacrificio.

Ciò non significa che non sia legittimo esigere che si faccia chiarezza. Ha pienamente ragione Mons. Ruggero Franceschini, Arcivescovo di Smirne e, ora, Amministratore apostolico dell’Anatolia, a chiedere: «Noi vogliamo tutta la verità, ma solo la verità». Ma anche le parole di Mons. Franceschini, riportate dall’agenzia AsiaNews, non possono in alcun modo essere strumentalizzate; non posso essere sbrigativamente interpretate come pista verso un omicidio di matrice islamica. Esse vanno lette molto attentamente:

«Io credo che per questo assassinio, che ha un elemento cosí esplicitamente religioso, islamico, siamo di fronte a qualcosa che va al di là del governo; va oltre, verso gruppi nostalgici, forse anarchici, che vogliono destabilizzare lo stesso governo.

«La stessa modalità con cui è avvenuta l’uccisione serve a manipolare l’opinione pubblica. Dopo avere ucciso il vescovo, il giovane Murat Altun ha gridato: “Ho ucciso il grande satana. Allah Akbar”. Ma questo è davvero strano. Murat non aveva mai detto queste frasi violente. Io lo conoscevo da almeno 10 anni. Sono io che l’ho assunto al lavoro per la Chiesa. E non si era mai espresso in questo modo. Non era un musulmano praticante. Era un giovane che aveva una cultura cristiana, senza essere cristiano. Né lui, né suo padre erano delle persone nostre nemiche. A mio avviso, sono stati uno strumento nelle mani di altri.

«L’uso del rituale islamico serve per deviare le interpretazioni: è come suggerire che la pista è religiosa e non politica. Inoltre, spingendo all’interpretazione religiosa, di un conflitto fra islam e cristiani, si riesce ad infiammare l’opinione pubblica in un ambito in cui noi siamo debolmente creduti e non abbiamo alcuna forza. Del resto, anche il primo ministro Erdogan ha gli appoggi piú forti non nell’islam radicale, ma in quello moderato. E temo che ormai non abbia piú nemmeno quello».

Non è facile comprendere che cosa vuol dire Mons. Franceschini: dice e non dice. Ma una cosa è certa: la realtà è estremamente complessa. Proprio per questo non è possibile giungere a conclusioni troppo sbrigative, che qualcuno, forse, ha interesse a favorire.

Fa riflettere che certi fatti (pensiamo anche all’assassinio di don Andrea Santoro del 2006) avvengano proprio in Turchia, in un paese laico o, al massimo, islamico moderato. Come mai non avvengono in quei paesi arabi dove il fanatismo islamico è piú forte? Forse, per capire, bisogna tener conto della storia della Turchia: nell’impero ottomano i cristiani costituivano una ragguardevole minoranza (se non erro, raggiungevano il 20% della popolazione) e avevano vissuto pacificamente per secoli con la maggioranza musulmana. Fu proprio quando la Turchia si apprestava a divenire un paese “laico” che la componente cristiana fu praticamente annientata (dagli artefici della moderna Turchia: i “giovani turchi”): si pensi al genocidio armeno, ai massacri e alle deportazioni dei greci e degli assiri, in concomitanza con la prima guerra mondiale.

Dopo questa “pulizia etnica” la situazione era parsa tranquillizzarsi. Come mai, proprio ora che al governo c’è un partito islamico moderato, che sta operando una vera e propria rivoluzione, estromettendo tutta l’antica classe dirigente legata alla massoneria e ai dunmeh, come mai proprio ora rivengono fuori questi attacchi ai cristiani e — sarà un caso — proprio in concomitanza con le visite papali (in Turchia nel caso di don Santoro, e a Cipro in quest’ultimo caso). Non sarà che ci sia qualcuno che ha interesse a tenere desto l’odio fra cristiani e musulmani e a fomentare lo “scontro di civiltà”?