venerdì 26 novembre 2010

“Ognuno è libero di contraddirmi”

Qualcuno dei miei lettori si sarà chiesto come mai finora non ho fatto alcun commento alla pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI Luce del mondo, che tanto scalpore ha suscitato sui media. Beh, devo confessare che il mio silenzio, solitamente, non è casuale: quando taccio, è perché voglio tacere; è perché preferisco non prendere posizione su determinati argomenti. Anche in questo caso sono stato molto indeciso a intervenire, soprattutto perché c’è di mezzo il Papa. E io, del Papa, ho una concezione piuttosto sacrale: il Papa non può essere criticato; se proprio non si è d’accordo con lui (cosa sempre possibile), si tace.

Che cos’è che in questo caso mi induce a derogare alle mie convinzioni? Il fatto che, nel caso presente, Benedetto XVI, come è stato autorevolmente sottolineato, non ha voluto compiere un atto magisteriale. Nella premessa a Gesú di Nazaret, lui stesso aveva affermato: «Ognuno è libero di contraddirmi». Penso che la stessa libertà valga, a maggior ragione, in questa occasione.

Qualcuno penserà che io voglia contestare al Papa la sua “apertura” sull’uso del profilattico. No, non voglio entrare nel merito delle questioni affrontate nell’intervista. Voglio solo soffermarmi su una questione previa, diciamo cosí “procedurale”. Sarò un po’ all’antica; ma è proprio necessario che il Papa scriva libri e rilasci interviste? Personalmente lo trovo non solo non necessario, ma anche inopportuno. Perché? Perché, scrivendo un libro, il Papa non agisce piú come Papa, ma come semplice teologo (un tempo si sarebbe detto “dottore privato”). Si dirà: che male c’è? Non c’è nessun male; ma nella Chiesa, secondo me, ciascuno deve fare il proprio mestiere: il Papa, il Papa; il teologo, il teologo. Quando poi il Papa rilascia un’intervista, riferisce le sue personali opinioni, certamente autorevoli, ma pur sempre opinioni. E, se devo essere sincero, a me interessa relativamente che cosa pensa il Papa; a me interessa che cosa egli insegna.

Ho l’impressione che con gli ultimi due pontificati si sia persa, almeno in parte, la consapevolezza della peculiarità del ministero petrino: diventando Papa, un uomo in qualche modo cessa di essere ciò che era; il suo nuovo incarico in un certo senso si impossessa della sua persona. Si potrebbe dire che l’eletto diventa “un altro”. Non credo sia un caso che il Papa, all’elezione, cambi nome (questo non avviene per gli altri Vescovi). Non credo fosse un caso che, una volta, il Papa nel parlare non usasse la prima persona singolare (“io”), ma il pluralis maiestatis (“noi”). È ovvio che il Papa continuerà ad avere le sue personali convinzioni; ma queste non interessano piú, devono essere messe da parte. I fedeli non si aspettano da lui di essere aggiornati sulle sue opinioni, ma di essere confermati nella fede. E nel caso di un teologo, come l’attuale Pontefice? Secondo me, dovrebbe sacrificare la sua scienza, per consacrarsi esclusivamente al proprio servizio ecclesiale. Penso che l’ultimo Papa che ha avuto piena coscienza del ruolo che gli era stato affidato fu Paolo VI: aveva certamente le sue idee; un orientamento di grande apertura intellettuale lo aveva sempre contraddistinto; ma, una volta divenuto Papa, fu capace di mettere tutto fra parentesi e di concentrarsi esclusivamente nella difesa del dogma.

Oltre tutto, l’esperienza che stiamo facendo dovrebbe insegnare che si tratta di operazioni estremamente rischiose, che alla fine potrebbero rivelarsi controproducenti. È vero che Benedetto XVI, alla domanda di Padre Lombardi se si rendesse conto di tale rischio, pare abbia risposto con un sorriso. Personalmente però ho l’impressione che, nel suo candore, non sempre si renda perfettamente conto di quanto i figli di questo mondo siano piú scaltri dei figli della luce (Lc 16:8). Proprio nell’intervista, a un certo punto, riferendosi al discorso di Ratisbona, afferma:

«Avevo concepito quel discorso come una lezione strettamente accademica, senza rendermi conto che il discorso di un Papa non viene considerato dal punto di vista accademico, ma da quello politico. Da una prospettiva politica non si considerò il discorso prestando attenzione ai particolari; fu invece estrapolato un passo e dato ad esso un significato politico, che in realtà non aveva».

Questa volta è accaduto lo stesso. Di che cosa hanno parlato i media in questi giorni? Fra le molteplici questioni trattate nel libro, si sono concentrati esclusivamente sul profilattico (esattamente ciò che lui stigmatizza nell’intervista), e anche qui, senza prestare attenzione ai particolari, hanno dato alle sue parole un significato “politico”, che in realtà non avevano. Non che non si possa affrontare la questione, estremamente seria, dell’uso del condom; ma lasciamolo fare ai teologi moralisti. Se lo fa il Papa, inevitabilmente il discorso diventa “politico”.

L’unica differenza fra le due situazioni è che, nel caso di Ratisbona, le sue parole gli attirarono solo critiche; ora, a quanto pare, solo consensi. Ma anche questo dovrebbe suonare come un campanello di allarme. Parole di Benedetto XVI nell’intervista:

«Se avessi continuato a ricevere soltanto consensi, avrei dovuto chiedermi se stessi veramente annunciando tutto il vangelo».

Il Papa non me ne voglia; ma, se ci siamo presi la libertà di sollevare qualche perplessità, è perché gli vogliamo bene.

mercoledì 24 novembre 2010

Sinodo o Concistoro?

La “giornata di preghiera e di riflessione”, svoltasi venerdí scorso in preparazione al Concistoro di sabato, ha stimolato in me alcune considerazioni su come si potrebbe attuare il principio di “sinodalità” nella Chiesa latina. Sappiamo che tale principio è al centro delle discussioni fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse: in queste ultime (come del resto nelle Chiese orientali cattoliche), accanto alla figura del Patriarca, esiste sempre un “Sinodo patriarcale”. A tale assemblea spettano fondamentalmente il potere legislativo e quello giudiziario, oltre che l’elezione del Patriarca (cf CCEO, can. 110).

In Occidente, come sappiamo, si è sviluppato soprattutto il principio del primato (esercitato dal Romano Pontefice) ed è rimasto nell’ombra, pur senza mai scomparire, quello della sinodalità. (Preferisco parlare di “sinodalità”, piuttosto che di “collegialità”, perché quest’ultima è sempre rimasta viva nella Chiesa cattolica, sia nella forma conciliare — cosa che invece non è piú avvenuta nelle Chiese ortodosse — sia in particolare circostanze, come la definizione dei dogmi di fede).

Con il Concilio si è cercato in qualche modo di ripristinare il principio della sinodalità nella Chiesa cattolica. Fu per questo che Paolo VI nel 1965 istituí il “Sinodo dei Vescovi”, che è poi entrato a far parte in maniera definitiva dell’organizzazione della Chiesa con il Codice di diritto canonico del 1983. 

A quasi 50 anni dalla sua istituzione, dopo dodici assemblee generali ordinarie, due assemblee generali straordinarie e una decina di assemblee speciali, penso che sia giunto il momento di procedere a una valutazione. Personalmente ho l’impressione che si sia dato vita a una sorta di “pachiderma” che si muove a stento e che non produce i risultati sperati. A intervalli piú o meno regolari (tre o quattro anni, senza contare le assemblee speciali) si mette in moto una procedura piuttosto macchinosa: si inizia con i lineamenta, che vengono sottoposti all’esame delle Chiese locali; con le osservazioni da queste inviate si elabora il cosiddetto instrumentum laboris; su questo si svolge l’assemblea vera e propria, che consiste in una serie di relazioni (solo recentemente è stata introdotta la possibilità di dibattito), che poi devono confluire in un elenco di propositiones da presentare al Papa, il quale, dopo un notevole lasso di tempo, emana una “esortazione apostolica post-sinodale”. E, diciamo la verità, tali esortazioni apostoliche lasciano un po’ il tempo che trovano, e vengono presto dimenticate.

Forse non è stata una grande idea l’istituzione di un Sinodo di questo tipo. Probabilmente ci vorrebbe qualcosa di piú stabile (una sorta di “sinodo permanente”, che non richieda ogni volta l’elezione dei membri da parte delle Conferenze episcopali) e, allo stesso tempo, piú agile (che non abbia bisogno di oltre un anno di preparazione; che possa svolgersi in tempi ragionevoli; che non debba attendere due anni per vedere pubblicate le proprie conclusioni).

Mi frullava per la mente: si potrebbe pensare a una sorta di “Sinodo dei Metropoliti”, cioè di tutti gli Arcivescovi a capo delle diverse province ecclesiastiche; ma, in tal caso, il numero dei partecipanti supererebbe i cinquecento: altro che “pachiderma”! Ciò che è avvenuto la settimana scorsa mi ha fatto allora pensare: che bisogno c’è di inventare nuove forme di sinodalità quando esiste già un organismo che, se fatto funzionare a dovere, risponderebbe perfettamente alle esigenze di comunione e di partecipazione, sempre esistite nella Chiesa e particolarmente sentite ai nostri giorni? 

Attualmente sembrerebbe che il Sacro Collegio abbia come sua unica competenza l’elezione del Papa, ma il diritto canonico a tale compito ne aggiunge un altro: «I Cardinali assistono il Romano Pontefice … agendo collegialmente quando sono convocati insieme per trattare le questioni di maggiore importanza» (can. 349). Oltretutto, essendo ora presenti nel Collegio cardinalizio Vescovi provenienti da ogni parte della Chiesa, esso risponde adeguatamente alle esigenze di rappresentatività dell’Episcopato mondiale.

Non c'è quindi bisogno di modificare l’attuale legislazione; il “sinodo” della Chiesa latina esiste già: il Collegio cardinalizio riunito in Concistoro. Basterebbe dargli nuovo impulso ed eventualmente nuove prerogative. Si potrebbe pensare di riunirlo a scadenze regolari (per esempio ogni anno) e sottoporre ad esso tutte le questioni di una certa rilevanza. L’attuale Sinodo dei Vescovi potrebbe invece essere convocato, senza regolarità fissa, per affrontare questioni particolari, soprattutto a carattere locale (come è avvenuto recentemente con il Sinodo per il Medio Oriente).

sabato 20 novembre 2010

Mater divinae Providentiae



Oggi i Barnabiti celebrano la festa della B. V. M. “Madre della divina Provvidenza”. Tale devozione ebbe inizio a Roma, nella chiesa di San Carlo ai Catinari, nel Settecento. Di lí essa si è diffusa nel mondo, in tutti i luoghi dove sono presenti i Barnabiti, che hanno dedicato a lei altari, cappelle, chiese, case religiose e istituti scolastici. Nella camera di ogni Barnabita, in ogni chiesa da loro officiata e in ogni aula delle loro scuole è presente la sua immagine. Non pochi istituti religiosi l’hanno scelta come loro celeste patrona. Dinanzi a lei, nel suo santuario romano, si sono inginocchiati i pontefici, da Pio VII a Giovanni Paolo II.

Stamattina, dovendo preparare l’omelia della Messa per gli alunni della scuola media, e volendo spiegare loro che cosa fosse la Provvidenza divina ho preso il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica. Vi ho trovato una spiegazione ineccepibile:

«[La Provvidenza] consiste nelle disposizioni, con cui Dio conduce le sue creature verso la perfezione ultima, alla quale Egli le ha chiamate. Dio è l’autore sovrano del suo disegno. Ma per la sua realizzazione si serve anche della cooperazione delle sue creature. Allo stesso modo, dona alle creature la dignità di agire esse stesse, di essere causa le une delle altre» (n. 55).

Non c’è che dire. Ma, mi son chiesto, che cosa capiranno i miei ragazzi? Dopo un attimo di incertezza, ho chiuso il Compendio e ho ripreso il vecchio Catechismo della dottrina cristiana di San Pio X, il quale, fra le “prime nozioni della fede cristiana”, affermava:

«Dio ha cura e provvidenza delle cose create, e le conserva e dirige tutte al proprio fine, con sapienza, bontà e giustizia infinita» (n. 12).

E cosí mi son deciso a spiegare la Provvidenza alla vecchia maniera, perché mi sembrava piú semplice. 

venerdì 19 novembre 2010

Legge sulla blasfemia!?

Non voglio entrare nel merito della discussa “legge sulla blasfemia”, in base alla quale è stata condannata a morte in Pakistan Asia Bibi (speriamo che la mobilitazione internazionale in atto riesca a fermare l’esecuzione della condanna). Mi voglio solo soffermare brevemente sull’espressione che viene usata: “blasfemia”. Con l’uso di tale espressione, inesistente in italiano, dimostriamo quanto siamo diventati “anglodipendenti” e, allo stesso tempo, la nostra ignoranza della lingua inglese.

Appare evidente che “legge sulla blasfemia” non sia altro che un maldestro tentativo di traduzione dell’espressione inglese “blasphemy law”. Capisco che, in certi casi, occorre tradurre frettolosamente fonti di agenzia; ma basterebbe la consultazione di un qualsiasi dizionario (anche tascabile) per sapere che blasphemy in inglese significa semplicemente “bestemmia”. 

Ma quel che è peggio è il modo in cui si pronuncia la parola “blasfemia”. Udito con i miei orecchi in TV: blasfemía! Si dirà: ma questa è la pronuncia greca del termine. Già, ma si dà il caso che l’italiano non derivi dal greco, bensí dal latino (e anche i termini di origine greca gli arrivano attraverso il latino). E in latino blasphemĭa si legge per l’appunto blasfèmia.

Si sente proprio il bisogno di introdurre un neologismo? Benissimo; visto che esso esiste già da secoli in latino, possiamo tranquillamente adottarlo. Ma, per lo meno, pronunciamolo alla latina!

giovedì 18 novembre 2010

Il crittogramma di Subirachs

In occasione della dedicazione della basilica della Sagrada Familia a Barcellona, cercando su internet informazioni sull’opera di Gaudí, mi sono imbattuto in un misterioso “crittogramma” posto sulla facciata della passione. 


Si tratta del quadrato magico di Josep Maria Subirachs Sitjar, che è a sua volta la modifica del quadrato magico di Albrecht Dürer (sui quadrati magici si può vedere utilmente la scheda di Wikipedia). Mentre nel quadrato di Dürer sono presenti tutti i numeri da 1 a 16 e la somma dei numeri di ciascuna riga, colonna e diagonale è 34, nel crittogramma di Subirachs non sono presenti i numeri 12 e 16 (mentre i numeri 10 e 14 sono ripetuti due volte) e il risultato della somma dei numeri di ciascuna riga, colonna e diagonale è 33, gli anni della vita di Gesú.


Ho trovato scritto da qualche parte che ci sono 310 combinazioni che dànno come risultato 33. Non lo escludo, se per combinazione si intende qualsiasi tipo di successione di quattro dei quattordici numeri presenti nel quadrato. Ma, cercando solo combinazioni che rispettino un qualche ordine, io, insieme con i miei alunni, ne ho trovate soltanto 32. Possibile che non se ne riesca a trovare almeno un’altra, la trentatreesima?


martedì 16 novembre 2010

Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?

Il signor Benedetto Serra mi chiede un parere sul post, apparso ieri sul blog Liturgia Opus Trinitatis, riguardante la colletta della Messa di Sant’Alberto Magno. In quel post Padre Augé faceva notare le differenze fra l’orazione del Messale del 1962 e quella presente nel Messale rinnovato. Può essere utile riportarle entrambe:

«Deus, qui beatum Albertum, Pontificem tuum atque Doctorem, in humana sapientia divinae fidei subjicienda magnum effecisti: da nobis, quaesumus, ita ejus magisterii inhaerere vestigiis, ut luce perfecta fruamur in caelis» (Messale 1962);

«Deus, qui beatum Albertum episcopum in humana sapientia cum divina fide componenda magnum effecisti, da nobis, quaesumus, ita eius magisterii inhaerere doctrinis, ut per scientiarum progressus ad profundiorem tui cognitionem et amorem perveniamus» (Messale 1970-2002).

Padre Augé si pone la domanda (è il titolo del post): “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. E nel post sembrerebbe optare per la discontinuità: «Ecco un caso tipico in cui i due Messali esprimono due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse».

Che dietro i due testi ci siano diverse sensibilità, mi pare che non lo si possa negare. Vogliamo chiamare tali “sensibilità” «due teologie diverse, due “comprensioni” della fede diverse»? Non è un problema; lo si può fare tranquillamente. Ma questo significa che ci troviamo di fronte a un caso di “discontinuità”? Non lo credo: quando oggi parliamo di continuità e discontinuità non ci riferiamo tanto alle sensibilità, alle teologie o alle “comprensioni” della fede; ci riferiamo piuttosto alla sostanza della fede stessa. Le teologie possono variare, e di fatto variano, a seconda dei tempi e dei luoghi; esse sono necessariamente condizionate dalla cultura e dalla sensibilità proprie di ciascuna epoca e di ciascun popolo. Ciò che invece non deve mutare è il depositum fidei.

Bene, nella fattispecie, c’è stato un mutamento dottrinale? Direi proprio di no. Nel Messale preconciliare si diceva che Sant’Alberto divenne grande (“Magno”) nel sottomettere la sapienza umana alla fede divina; nel Messale attuale si afferma invece che egli divenne grande nel comporre (= mettere insieme) quelle due virtú. C’è contraddizione fra i due modi di esprimersi? Non mi sembra. Fra i due verbi, ce n’è uno giusto e uno sbagliato? Non direi; entrambi sono corretti. Quale è meglio usare? A questo punto entrano in gioco le diverse sensibilità: un tempo si preferiva affermare — correttamente — che la ragione deve sottomettersi alla fede; oggi si preferisce dire — altrettanto correttamente — che ragione e fede devono armonizzarsi fra loro. Ecco, ho l’impressione che questo caso specifico ci faccia capire molto bene che cosa ha realmente fatto il Concilio Vaticano II: lasciando immutata la dottrina, ha mutato il linguaggio, dal momento che nel frattempo era mutata la sensibilità dell’uomo contemporaneo. Un’operazione, dunque, esclusivamente pastorale.

Che cosa rispondere dunque alla domanda: “Continuità, discontinuità o progresso nella continuità?”. Non so se in questo caso si possa parlare di reale progresso nella continuità. Forse si tratta, molto piú semplicemente, di continuità nell’apparente discontinuità.

sabato 13 novembre 2010

Il nuovo Messale italiano

Finalmente è giunta, dalla 62ª Assemblea generale della CEI che si è svolta nei giorni scorsi ad Assisi, la risposta alla domanda che ci eravamo posta piú volte: a che punto siamo con la traduzione italiana della terza edizione del Missale Romanum? I Vescovi, nel corso della loro riunione, hanno approvato una parte del materiale (il resto verrà esaminato nella prossima assemblea del maggio 2011). Mercoledí scorso Mons. Alceste Catella, presidente della Commissione episcopale per la liturgia, ha tenuto sulla questione una conferenza stampa, di cui ha riferito Avvenire (si veda, nell’archivio storico, il numero di giovedí 11 novembre 2010, a p. 23).

Naturalmente, la notizia non può che farmi piacere: finalmente, dopo otto anni, qualcosa comincia a muoversi. Mi dispiace però che la cosa, come al solito, venga banalizzata. Leggetevi il resoconto di Avvenire. Che cosa si dice? Praticamente si dice: state tranquilli, non cambierà nulla (casomai ci fosse qualcuno che tema una qualche forma di restaurazione); al massimo “potrebbero” cambiare il Gloria (dove si potrebbe dire in futuro: «e pace in terra agli uomini che egli ama») e il Padre nostro (dove c’è la possibilità che si dica: «non abbandonarci alla tentazione»), per uniformarsi alla nuova traduzione della Bibbia.

Spero che Mons. Catella non si sia limitato a dire simili banalità (anche se capisco che bisogna in qualche modo adeguarsi agli standard sempre riduttivi dell’informazione). Spero che abbia illustrato l’importanza di questa nuova edizione del Messale in ordine a una celebrazione qualitativamente migliore della liturgia. In ogni caso, pur rimanendo nell’ambito degli esempi portati, avrei qualche dubbio che la Santa Sede possa acconsentire a certe modifiche (sebbene si debba riconoscere che la CEI ha sempre goduto, presso i dicasteri vaticani, di una “corsia preferenziale”, che le ha permesso di far approvare anche cose alquanto discutibili). Perché nutro dei dubbi? Perché, considerando la nuova edizione inglese del Messale, vedo che non si è affatto andati nella direzione auspicata da Mons. Catella (e, ritengo, dalla maggioranza dell’Episcopato italiano).

Nel Gloria la vecchia versione inglese diceva: «Glory to God in the highest, and peace to his people on earth» (dove gli “uomini di buona volontà” erano semplicemente diventati il “suo popolo”). Ci si sarebbe potuti aspettare che nella nuova traduzione adottassero l’espressione usata della New American Bible (ufficiale per l’uso liturgico negli Stati Uniti): «… and on earth peace to those on whom his favor rests»; oppure quella usata nella Jerusalem Bible (adottata in Gran Bretagna): «… and peace to men who enjoy his favor»; o quella della Revised Standard Version (utilizzata in altri paesi di lingua inglese): «… and on earth peace among men with whom he is pleased». E invece, come ti vanno a tradurre la frase iniziale del Gloria? «Glory to God in the highest, and on earth peace to people of good will». Ovviamente non hanno usato la parola “men” (diventata ormai impronunciabile nel mondo anglosassone, a causa del cosiddetto linguaggio inclusivo), ma “bonae voluntatis” l’hanno tradotto, letteralmente, “of good will”. Oibò, stai a vedere che i traduttori dell’ICEL (International Commettee on English in the Liturgy) non sono abbastanza aggiornati sulle ultime scoperte della scienza esegetica. O non sarà piuttosto che i nostri liturgisti non si siano resi conto che il Gloria non è una pagina del Vangelo, ma un inno liturgico, che, pur ispirandosi al Vangelo, vive ormai da qualche secolo di vita propria? I nostri liturgisti sembrerebbero non essersi avveduti che il Gloria è stato sempre diverso anche dalla Volgata («Gloria in altissimis Deo…»), e che, nella riforma liturgica, nessuno ha pensato di adeguarlo alla Neovolgata («Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis»).

Quanto al Padre nostro, nella nuova traduzione inglese del Messale avrebbero potuto adottare la versione cosiddetta “ecumenica”, che pure viene attualmente utilizzata in alcuni paesi. In tale versione (nella quale ci si rivolge a Dio col moderno “you”, anziché con l’arcaico “thou”) «et ne nos inducas in tentationem» viene reso, piú modernamente, con «do not bring us to the test». E invece, anche in questo caso, si è preferito conservare la formula tradizionale «and lead us not into temptation» (anzi, a quanto ne so,  d’ora in poi ci si dovrà conformare ovunque a tale formula).

L’articolo di Avvenire si apre con l’affermazione che «non sono previsti cambiamenti per le risposte dei fedeli durante la Messa». Siamo proprio cosí sicuri? Anche in questo caso, un paragone col nuovo Messale inglese potrebbe farci pensare il contrario. Un esempio: la risposta dei fedeli alla comunione era: «Lord, I am not worthy to receive you, but only say the word and I shall be healed». Adesso sarà: «Lord, I am not worthy that you should enter under my roof, but only say the word and my soul shall be healed». Perché dunque l’attuale «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato» non potrebbe trasformarsi in un piú letterale (in tal caso, sí, adottando la traduzione di Mt 8:8): «O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà guarita»? Viene forse usata qualche espressione incomprensibile? Forse che non sia possibile cogliere la metafora del “tetto”? O forse non va piú di moda parlare di “anima”? Tra l’altro, traducendo con “anima”, si eviterebbe alle donne l’imbarazzo di dire “sarò salvato”.

Per fortuna, ci si rende conto che l’ultima parola spetterà alla Santa Sede. Sperando che, nel frattempo, siano state abolite le corsie preferenziali…

sabato 6 novembre 2010

Una traduzione fedele

Finora, nei miei interventi sulla nuova traduzione della CEI non ho fatto altro che lamentarmi. Questa volta, invece, non posso che rallegrarmi. Mi riferisco alla seconda lettura della Messa di questa XXXII domenica “per annum”: 2 Tessalonicesi 2:16—3:5.

Finora il versetto 3:1 suonava: «Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi». La nuova versione lascia tutto immutato fuorché un verbo: anziché “si diffonda”, traduce letteralmente “corra” (in greco: τρέχῃ). Stupendo! Pregate, fratelli, perché la parola di Dio corra… Si dirà: beh, ma che vuol dire? non significa, appunto, che essa si deve diffondere? Sí, ma volete mettere? È un’altra musica. O, per lo meno, questo è ciò che ha scritto Paolo. Ed è giusto che anche i lettori moderni possano non solo percepire un concetto (che la parola di Dio si diffonda…), ma possano anche gustare le parole con cui Paolo ha voluto esprimere quel concetto, parole che aggiungono a quel concetto una carica emotiva che in sé stesso non possiede. La vita non è fatta solo di idee, ma anche di immagini, sensazioni, impressioni… Perché defraudare la Scrittura della sua ricchezza? Qualcuno risponderà: per renderla piú intelligibile; per facilitare all’uomo d’oggi la sua comprensione. Ma perché, pensate che l’uomo d’oggi non sia in grado di cogliere il senso della metafora del “correre” applicata alla parola di Dio? Lo credete cosí idiota?

Questo caso dimostra come, in fondo, sarebbe facile tradurre fedelmente la Bibbia: basterebbe tradurla letteralmente. Nel testo originale c’è scritto “corra”? Si traduce con “corra”. Perché cambiarlo? Perché andare a cercare altre espressioni, che finiscono per essere inevitabilmente una interpretazione soggettiva? Mi chiedo allora: se è stato possibile, ed è stato cosí semplice, correggere in senso positivo la vecchia traduzione in questo passo, perché non lo si è fatto anche altrove? È buona norma, quando ci si accinge a un lavoro di questo genere, stabilire all’inizio i criteri che si seguiranno durante il lavoro, e poi sforzarsi di applicarli con una certa uniformità. È chiedere troppo?

mercoledì 3 novembre 2010

IOR, trasparenza e... prudenza

Ormai non sono piú un ragazzo; gli anni continuano a passare. Fra i tanti inconvenienti dell’età che avanza, ci sono anche alcuni vantaggi: l’esperienza permette di guardare con un certo disincanto alle vicende della vita. Pensate alla politica: di tempo in tempo si presentano nuovi uomini e movimenti politici che ci promettono mari e monti; messi alla prova, dimostrano poi di essere in tutto e per tutto simili, se non peggiori di quanti li hanno preceduti.

Lo stesso sentimento di distacco provo in questi giorni a proposito dello IOR (l’Istituto per le Opere di Religione, la banca vaticana). Senza contare le vicende di anni lontani, di cui sono stato informato da altri che le avevano vissute, limitandomi a ciò che posso ricordare personalmente, sono stato testimone piú volte di annunciate radicali riforme dell’Istituto, sistematicamente risoltesi in un nulla di fatto (tanto che si è poi sentita l’esigenza di una successiva, ulteriore riforma). Per cui, quando sento proclami che d’ora in poi tutto cambierà, non ci credo piú, perché so che tutto rimarrà come prima. Né la cosa mi scandalizza piú di tanto, perché sono giunto alla conclusione che il mondo va, e sempre andrà, come deve andare. 

Per questo, quando assunse la presidenza dello IOR Ettore Gotti Tedeschi, accolsi con una certa diffidenza i suoi propositi di svolta radicale nella gestione dell’Istituto. La Procura di Roma si è poi incaricata di dimostrare che le cose non stanno propriamente andando nel senso preannunciato dal presidente dello IOR. Naturalmente ci si giustifica adducendo come motivo gli effetti negativi delle passate gestioni.

È ovvio che tale tipo di giustificazione inevitabilmente provoca la reazione di chi è stato responsabile di quelle gestioni. È esattamente ciò che è avvenuto in questi giorni (si veda l’articolo di Repubblica del 1° novembre). L’ex-presidente dello IOR, Angelo Caloia, non ha gradito molto le esternazioni di Gotti Tedeschi e ha chiesto che gli sia data la possibilità di replicare alle sue insinuazioni dalle colonne dell’Osservatore Romano. Una richiesta — mi pare — piú che legittima. Spero vivamente che la direzione del giornale vaticano dia a Caloia la possibilità di fornire la sua versione dei fatti.

Gotti Tedeschi non si è dimostrato molto prudente in questa vicenda. Ma mi sembra che si sia dimostrato altrettanto imprudente nel promettere totale “trasparenza” nella gestione della banca vaticana. Ormai è diventata una moda parlare di trasparenza; ma il piú delle volte non ci si rende conto delle conseguenze che ciò può comportare. Tanto è vero che, nel medesimo articolo di Repubblica, si parla di una corsa ai ripari per tutelare una piú che legittima privacy. Ho l’impressione che talvolta non si considerino i risvolti di quel che si dice; sembra che si faccia di tutto per compiacere i media, adottandone il linguaggio; ma poi ci si accorge che, una volta imboccata quella strada, non si sa dove si va a finire. È dell’altro giorno la notizia che un gruppo di sopravvissuti all’Olocausto hanno chiesto all’Unione Europea che si indaghi sull’eventualità che lo IOR abbia svolto un ruolo nel trasferimento dei beni rubati dai nazisti ai deportati nei campi di concentramento (si veda l’articolo su La Stampa).

Prima di riempirci la bocca di certe espressioni (e, conseguentemente, adottare un determinato sistema di valori) prudenza vorrebbe che si riflettesse un attimino sul significato, l’origine e il fine di quelle espressioni. La “trasparenza”, che io sappia, non rientra fra le virtú umane e cristiane; si tratta di un “valore” di recente creazione. Se voi andate a cercare in un dizionario anche solo di qualche anno fa, non troverete il significato che noi diamo oggi a tale parola. Probabilmente l’idea di trasparenza ha cominciato a diffondersi al tempo di Gorbacev (già questo dovrebbe farci riflettere: la glasnost, una volta usata per smantellare il sistema sovietico, fu velocemente messa da parte). Ho l’impressione che la trasparenza venga reclamata solo quando ci si propone un preciso obiettivo (si pensi, per esempio, all’insistenza sulla trasparenza durante la campagna contro la pedofilia nella Chiesa). Un altro aspetto da considerare, poi, è che chi rivendica trasparenza è in genere il primo a non praticarla. Un esempio: gli ebrei continuano a chiedere l’apertura degli archivi vaticani sul pontificato di Pio XII, ma poi in Israele prolungano di venti anni il periodo di secretazione dei loro documenti (si veda l’articolo su Haaretz). Voglio dire: noi spesso siamo un po’ ingenui, e non ci accorgiamo che la richiesta di trasparenza, solitamente, nasconde secondi fini. Eppure Gesú ci aveva messi in guardia: «I figli di questo mondo verso i loro pari sono piú scaltri dei figli della luce» (Lc 16:8).

Che si debba parlare di giustizia e di onestà o anche, piú semplicemente, di correttezza e di rigore, sono d’accordo; ma quando si incomincia a parlare di “trasparenza”, meglio stare accorti. Se invece di farci belli con espressioni oggi alla moda, pensassimo a praticare la vecchia virtú della prudenza, forse faremmo meglio.