martedì 21 dicembre 2010

Continuità e sviluppo

Un lettore mi ha segnalato la lettera del Padre Giovanni Cavalcoli al Prof. Corrado Gnerre, pubblicata l’altro giorno su Messainlatino.it, esprimendo l’auspicio di un mio intervento sull’oggetto della controversia. 

Avevo già letto la lettera, come tutti gli interventi precedenti sull’argomento. Come sanno i miei lettori, il problema dell’interpretazione del Concilio rientra tra i miei maggiori interessi. Questo blog è nato con la pubblicazione di una riflessione proprio su Concilio e “spirito del Concilio” in tempi non sospetti (lo studio era del giugno 2008 e fu pubblicato a fine gennaio 2009). Come spiegavo in quel post, avevo inviato le mie considerazioni a un paio di siti web (uno dei quali aveva sollecitato una mia collaborazione), senza però vederle pubblicate. Erano passati già quattro anni dal discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana sulle due ermeneutiche del Concilio, ma fino ad allora quel discorso non aveva provocato alcun dibattito. Sembrava quasi che le mie riflessioni non potessero interessare nessuno. Una volta pubblicate, esse ebbero una discreta risonanza, soprattutto sui siti tradizionalisti. In questi ultimi due anni sembrerebbe che tutti si siano d’un tratto svegliati: ciascuno vuol dire la sua. La cosa non può che farmi piacere. Non vorrei essere frainteso: non sono cosí sciocco da pensare che l’interesse sul Concilio sia stato risvegliato dal mio post; voglio solo dire che avevo visto giusto dicendo che, trascorsi quarant’anni dal Vaticano II, fosse «non solo legittimo, ma in certa misura doveroso procedere a un ripensamento del Concilio».

Successivamente sono tornato a piú riprese nei miei post sull’argomento, non soltanto per confermare quanto da me espresso in quel primo studio, ma spesso per precisare, completare, rivedere e correggere le mie posizioni. L’argomento, secondo me, è ancora aperto, per cui leggo con grande interesse tutti i contributi che vengono pubblicati. Ciò che non prendo in considerazione sono le prese di posizione preconcette, ispirate dall’ideologia e che non ammettono discussione, come quando si presenta il Concilio come “nuovo inizio” o, al contrario, come “rovina” della Chiesa.

In questi ultimi tempi, è vero, non sono piú intervenuto in materia, nonostante l’intensificarsi del dibattito. Come mai? Mi sembra che questo debba essere per me un momento di ascolto e di riflessione prima che di proposta di soluzioni. Vedo che sono stati pubblicati recentemente contributi di un certo spessore: penso che prima di pronunciarsi sia doveroso leggerseli. E io confesso di non aver avuto ancora tempo e modo di leggere né il libro di Mons. Brunero Gherardini (fra l’altro, non reperibile nelle comuni librerie cattoliche) né, tanto meno, quello appena uscito del Prof. Roberto De Mattei. Non vorrei prendere una cantonata simile a quella che presi quando scrissi un post sul libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto? senza averlo ancora letto (per forza, a quell’epoca ero in India; eppure ci fu chi si indignò perché mi ero permesso di fare delle riflessioni basate su una recensione): quando poi lo lessi, mi accorsi che non rivestiva l’importanza, che sembrava attribuirgli Introvigne nella prefazione. Attualmente sto leggendo un testo fondamentale nel settore: lo Iota unum di Romano Amerio, al quale molti interventi successivi fanno riferimento. Per ora preferisco non pronunciarmi, dal momento che non ne ho ancora concluso la lettura, anche se mi sto già facendo un’idea.

Quanto alla lettera di Padre Cavalcoli (che ho avuto modo di conoscere al convegno su Amerio, tenuto a San Marino il 12 giugno scorso), non posso che condividerla in toto. Sarà che quando si ha la stessa formazione, si finisce sempre per ritrovarsi piú o meno d’accordo; ma a me quello di Padre Cavalcoli sembra un contributo notevole, che meriterebbe ben piú di una lettera. Mi sembrano quanto mai pertinenti le sue precisazioni sulla natura “pastorale” del Concilio. Questa non esclude affatto una sua innegabile dimensione “dottrinale”: «Il Concilio [contiene] pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite».

Agli esempi portati da Padre Cavalcoli (l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa) mi permetto di aggiungerne un altro, che rende bene l’idea del valore dogmatico del Concilio: la definizione della sacramentalità dell’episcopato, una verità che fino ad allora era non era stata ancora sufficientemente messa in luce (si pensava che l’episcopato aggiungesse al sacerdozio solo la potestas jurisdictionis):

«Insegna il Sacro Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei Santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, vertice del sacro ministero» (Lumen gentium, 21).

Sfido chiunque a considerare tale testo un intervento “pastorale”; il suo carattere dottrinale è indiscutibile («Insegna il Sacro Concilio...»). Semmai, si potrà discutere sulla sua “nota teologica” (= il suo carattere vincolante).

Un tale pronunciamento illustra bene anche il vero senso da dare all’idea di “continuità”, ripreso da Padre Cavalcoli:

«La continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche ... ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli».

Alcuni avrebbero voluto che il Concilio si limitasse a riproporre, tali e quali, le formule già elaborate nei secoli precedenti; siccome non lo ha fatto, ciò sarebbe prova della sua “rottura” con la tradizione. Come spiega bene Padre Cavalcoli, “continuità” non è sinonimo di “ripetizione”, ma implica l’idea di “sviluppo” e di “progresso”, come nel caso della sacramentalità dell’episcopato, una “novità” ben radicata nella tradizione. Non per voler citare me stesso, ma solo per evitare di ripetere cose già dette, mi permetto di rinviare, a questo proposito, al mio post Tradizione e tradizione. Di solito, se si vuole difendere la tradizione, bisogna accettarne lo sviluppo; talvolta l’attaccamento acritico al passato e la riproposizione materiale delle vecchie formule possono rivelarsi come il peggior tradimento della tradizione.