domenica 22 maggio 2011

A proposito di “Universae Ecclesiae”

«Le sentenze non si discutono, si applicano». Semmai, si appellano. Mutatis mutandis, tale principio, proprio dell’ordinamento civile, può essere estensivamente applicato anche a quello canonico. Per cui i provvedimenti dell’autorità ecclesiastica non dovrebbero essere oggetto di discussione, ma di semplice esecuzione. Nel caso di decisioni prese da un’autorità inferiore si può sempre prevedere un ricorso all’autorità superiore; nel caso degli atti pontifici, invece, non è previsto alcun tipo di ricorso: le sentenze emesse dal Sommo Pontefice sono inappellabili (can. 1629); addirittura, chi ricorre al Concilio ecumenico o al Collegio dei Vescovi contro un atto del Romano Pontefice deve essere punito con una censura (can. 1372).

Fondandomi su questo principio, avevo pensato di non pronunciarmi a proposito della pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae. È vero, non si tratta di un intervento pontificio, ma di un documento della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”. Quindi, teoricamente, se ne potrebbe anche discutere; ma a me pare che esso faccia proprio ciò che devono fare le istruzioni: «rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle» (can. 34). Mi sembra che Universae Ecclesiae assolva correttamente questo compito nei confronti del m. p. Summorum Pontificum, il quale, essendo un atto del Papa, non dovrebbe essere messo in discussione. Ritengo che la nuova istruzione non aggiunga molto al motu proprio: essa si limita a fare alcune precisazioni, tese a evitare che d’ora in poi ci possano essere equivoci nell’interpretazione di Summorum Pontificum.

Se proprio si volesse cercare nell’istruzione una qualche novità rispetto al motu proprio, personalmente direi che questa vada ricercata nel primo degli obiettivi del documento papale, individuati al n. 8:

«[Il motu proprio] si propone l’obiettivo di:
a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare;
b) garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria, nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari;
c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa».

Sul secondo e terzo obiettivo, nulla da eccepire, dal momento che essi sono chiaramente espressi nel motu proprio e nella lettera accompagnatoria ai Vescovi (si veda il mio post del 16 settembre 2010). Onestamente, non mi sembra che si possa dire altrettanto del primo obiettivo: finora ne potevano aver parlato alcuni prelati; ma faccio fatica a trovare quell’obiettivo esplicitamente dichiarato all’interno del motu proprio. In ogni caso, non ho nulla da ridire in proposito: se questa era veramente la mens del Santo Padre, era giusto che essa, rimasta implicita nel motu proprio, venisse esplicitata nell’istruzione. Non posso però non rilevare che, a mio modesto avviso, con l’attuale disciplina, non sarà facile raggiungere quell’obiettivo. Mi spiego: il motu proprio permette, ma non impone la celebrazione della Messa secondo il vecchio rito; per cui non vedo come, con una celebrazione che di fatto rimarrà limitata ai gruppi che ne faranno richiesta, si possa perseguire l’obiettivo di «offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare».

Potrei fermarmi qui. Ma, siccome sono stato sollecitato a prendere posizione nel dibattito che è seguito alla pubblicazione dell’istruzione, mi sembrerebbe scortese rispondere con un secco «No comment». In particolare mi è stato chiesto di esprimere un’opinione sul commento del Prof. Andrea Grillo, pubblicato nel suo blog e ripreso dal Padre Augé. Devo precisare di aver letto il post del Prof. Grillo, ma di non aver potuto seguire i commenti pubblicati nel blog Liturgia Opus Trinitatis, perché da qualche tempo un misterioso problema tecnico mi impedisce di visitarlo.

Quanto alle considerazioni del Prof. Grillo, si potrà pure contestare il loro tono un tantino “brutale” o, come è stato detto, “temerario”; ma non le si può ritenere prive di qualsiasi fondamento. Il suo intervento potrà certo essere criticato; ma non può essere liquidato semplicemente come la reazione isterica di un nostalgico modernista o come l’atto di insubordinazione di un liturgista disobbediente al Papa. Secondo me, esso deve essere accolto come una stimolante provocazione, che ci costringe a riflettere su una situazione che non può essere considerata scevra di problemi.

Non mi sembra il caso di riprendere e discutere qui le singole osservazioni di Grillo. Ritengo piú utile esporre le mie personali riflessioni (che avrei preferito tenere per me) non tanto sull’istruzione (che — ripeto — non mi sembra portatrice di grandi novità), quanto piuttosto sul “doppio regime” liturgico, introdotto dal m. p. Summorum Pontificum e confermato dall’istruzione Universae Ecclesiae. Che qualche problema esista non sono solo il Prof. Grillo o il Padre Augé a dirlo. Proprio questo fine-settimana Vittorio Messori, col suo solito disarmante buon senso, faceva notare:

«Ma se il vecchio rito era bello e buono, come adesso si riconosce, perché è stato sostituito? Perché, anzi, è stato stravolto? Se si voleva solo cambiare la lingua, perché non è stato tradotto dal latino con solo qualche ritocco qua e là, come è avvenuto altre volte nella storia della Chiesa?» (La Bussola Quotidiana).

Per quanto mi riguarda, mi ero già espresso su Summorum Pontificum (i vedano i post del 6 marzo 2009 e del 18 luglio 2009). Forse qui conviene riprendere i punti allora enunciati e aggiungerne qualche altro frutto di successive riflessioni.

1. Innanzi tutto, a proposito del presupposto della nuova disciplina, Summorum Pontificum afferma che il vecchio rito non è stato mai abolito. Non mi sembra che tale affermazione trovi corrispondenza nella volontà piú che esplicita di Paolo VI di sostituire il Vetus Ordo con il Novus.

2. Sono sempre stato favorevole al fatto che ai fedeli tradizionalisti fosse riconosciuto il diritto di partecipare alla Messa secondo l’antico rito; ciò che mi crea difficoltà è la totale liberalizzazione di esso. Secondo me, per garantire quel sacrosanto diritto, non era necessario giungere alla liberalizzazione (che ritengo sia stata accordata esclusivamente per motivi di “politica ecclesiastica”, vale a dire per venire incontro ai lefebvriani, che l’avevano richiesta). Quel diritto poteva essere garantito tranquillamente attraverso l’istituto dell’indulto. Si dirà: ma l’indulto già esisteva e aveva mostrato i suoi limiti. Bene, a mio parere, bisognava trovare il modo di renderlo piú efficace senza giungere alla completa liberalizzazione. 

3. Personalmente trovo che l’attuale “doppio regime” non possa che essere fonte di confusione e divisioni. Si dirà: ma perché non si sottolineano i medesimi pericoli quando si tratta degli abusi liturgici? Rispondo: semplicemente perché, in quel caso, si tratta appunto di abusi; qui invece si sta parlando della norma. Diverso sarebbe stato se si fosse proseguito sulla strada dell’indulto. L’indulto è un privilegio, un’eccezione alla norma, accordata a determinati gruppi, senza mettere in discussione la norma stessa, che resta vincolante per tutti (“l’eccezione conferma la regola”). Personalmente, non ho alcuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di amministrazioni apostoliche, ordinariati, prelature personali, istituti di vita consacrata, società di vita apostolica, parrocchie, rettorie, cappellanie, associazioni di fedeli, che godano del privilegio, da prevedere negli statuti, di celebrare secondo l’antica liturgia. Ecco, se proprio la disciplina precedente non sembrava soddisfacente, si poteva disporre che in ciascuna diocesi, in assenza di istituti “Ecclesia Dei”, si istituisse una parrocchia personale o, almeno, una cappellania per venire incontro ai fedeli legati alla tradizione. Trovo difficile da accettare invece che i due usi del rito romano vengano considerati su un piano di perfetta parità, e che ognuno possa sentirsi libero di scegliere una delle due forme, e che un qualsiasi gruppo di fedeli possa andare da un parroco e “pretendere” che si celebri la Messa tridentina.

4. Faccio fatica a capire come tali gruppi di fedeli (giuridicamente non ben definiti) possano godere di una sorta di “corsia preferenziale” rispetto a tutti gli altri fedeli, che sono tenuti a uniformarsi alle norme pastorali vigenti in ciascuna diocesi. Faccio un esempio che mi tocca da vicino: noi religiosi (che non siamo dei gruppi spontanei, ma delle persone giuridiche ufficialmente riconosciute dalla Chiesa ed esenti dal governo degli Ordinari del luogo) siamo soggetti alla potestà dei Vescovi in ciò che riguarda la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le opere di apostolato (can. 678 § 1). In qualche caso ciò si traduce in forti limitazioni nel decidere il numero e l’orario delle Messe, nella celebrazione del triduo pasquale e nell’amministrazione dei sacramenti (prima comunione, cresima, matrimonio) nelle nostre chiese non-parrocchiali o nei nostri oratori semipubblici. Non riesco a capire perché i gruppi tradizionalisti debbano godere di facoltà piú ampie di quelle dei religiosi (al punto che possono ottenere la reiterazione dei riti della settimana santa nella stessa chiesa: Universae Ecclesiae, n. 33).

5. Uno dei punti qualificanti del motu proprio (piú precisamente, della concomitante lettera ai Vescovi) è la riaffermazione della continuità tra Vetus e Novus Ordo: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Ebbene, non mi sembra che la disciplina del “doppio regime” metta in risalto tale continuità: se si parla di continuità di due segmenti, ci si pone su una stessa linea retta; se si “giustappongono” (Universae Ecclesiae, n. 6; si veda il commento di Cantuale Antonianum) i due riti, li si pone su due rette parallele, e non si può piú parlare di continuità. Una volta dichiarata la continuità tra il vecchio e il nuovo rito, tutti dovrebbero accettare il nuovo come sostitutivo del vecchio (senza escludere, come detto, eventuali eccezioni, che però devono rimanere tali). La giustapposizione è una forma di dualismo, che non favorisce in alcun modo la percezione della continuità.

6. La stessa terminologia scelta per distinguere i due usi (“forma ordinaria” e “forma straordinaria”), che condivido, a mio parere implicherebbe una diversa disciplina, vale a dire quella dell’indulto e non quella della coesistenza su un piano di parità (nel qual caso non si capisce perché una forma debba essere considerata “ordinaria” e l’altra “straordinaria”).

7. Recentemente il Card. Kurt Koch ha affermato che Benedetto XVI avrebbe avviato col motu proprio la “riforma della riforma”, da lui a piú riprese auspicata prima di diventare Papa. Sinceramente tale affermazione suscita in me qualche perplessità: non riesco a vedere come la liberalizzazione del rito tridentino possa segnare l’inizio della “riforma della riforma”. A mio parere, una “riforma della riforma” era già in corso nella Chiesa dal giorno in cui era entrato in vigore il Novus Ordo. Certo, nessuno usava quell’espressione, ma di fatto di questo si trattava; o, se vogliamo, si trattava di una continuazione, di uno sviluppo della riforma. Un fatto è certo: la riforma liturgica non poteva dirsi conclusa. Man mano che passavano gli anni venivano introdotte delle correzioni e degli adattamenti; molto spesso si recuperavano elementi che erano stati forse un po’ frettolosamente accantonati dalla prima riforma. Testimoni di tale evoluzione sono le tre edizioni del Missale Romanum: si faccia un confronto tra la prima e la terza, e si vedranno le differenze. Bene, ho paura che il motu proprio, nonché favorire la “riforma della riforma”, finisca per bloccarla. Il rischio, non remoto, è che si possa assistere a una polarizzazione dei due riti. Altro che continuità!

8. Il Card. Ratzinger aveva espresso l’opinione che «a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica» (lettera al Dott. Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003). Ora tale convinzione è stata ripresa dal Card. Koch: «A lungo termine, non possiamo fermarci a una coesistenza tra la forma ordinaria e la forma straordinaria del rito romano … la Chiesa avrà nuovamente bisogno nel futuro di un rito comune». Se questo è lo scopo, a che pro liberalizzare l’usus antiquior? Risponde Koch, riprendendo le parole di Benedetto XVI: «Le due forme dell’uso del rito romano possono e devono arricchirsi a vicenda». Siamo proprio sicuri che ciò avverrà? D’accordo che «una nuova riforma liturgica non può essere decisa a tavolino, ma richiede un processo di crescita e di purificazione»; ma chiedo: tale “processo di crescita e di purificazione” non era già in corso? Non rischia ora di essere bloccato? Non conveniva che il Vetus Ordo rimanesse il rito proprio di alcune, ben definite, categorie di fedeli, e da tale posizione continuasse a influire sul Novus?

Solo domande, le mie, che non intendono in alcun modo mettere in discussione la piena legittimità del motu proprio e della sua istruzione applicativa. Come detto, avrei preferito tenere per me i miei dubbi; ma, visto che mi è stato richiesto, ho voluto condividerli con voi. Con semplicità. Sperando di non essere tacciato di modernismo e di disobbedienza al Santo Padre...