martedì 27 dicembre 2016

Una Curia Romana “semper reformanda”?



Giovedí scorso, 22 dicembre, Papa Francesco ha ricevuto i Prelati della Curia Romana per il tradizionale scambio degli auguri natalizi. Quest’anno il discorso, che il Pontefice è solito rivolgere ai presenti per l’occasione, si è incentrato sulla riforma della Curia Romana. I media si sono praticamente limitati a riportare il passaggio riguardante le resistenze all’opera di riforma, nelle quali si è voluto vedere un riferimento ai quattro Cardinali che hanno sottoposto al Papa alcuni dubia a proposito dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia:
In questo percorso risulta normale, anzi salutare, riscontrare delle difficoltà, che, nel caso della riforma, si potrebbero presentare in diverse tipologie di resistenze: le resistenze aperte, che nascono spesso dalla buona volontà e dal dialogo sincero; le resistenze nascoste, che nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano delle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima; esistono anche le resistenze malevole, che germogliano in menti distorte e si presentano quando il demonio ispira intenzioni cattive (spesso “in veste di agnelli”). Questo ultimo tipo di resistenza si nasconde dietro le parole giustificatrici e, in tanti casi, accusatorie, rifugiandosi nelle tradizioni, nelle apparenze, nelle formalità, nel conosciuto, oppure nel voler portare tutto sul personale senza distinguere tra l’atto, l’attore e l’azione.

Papa Francesco ci ha ormai abituati a questo stile e a questo linguaggio, per cui, a mio parere, non mette conto disquisire sull’opportunità per un Pontefice di esprimersi in tali termini: Papa Bergoglio è cosí; dobbiamo farcene una ragione. Mons. Georg Gänswein, nell’intervista rilasciata l’estate scorsa alla Schwäbische Zeitung, aveva giustamente rilevato: «Che nei discorsi, rispetto ai suoi predecessori, di tanto in tanto sia un po’ impreciso, e addirittura irrispettoso, si deve solo accettare. Ogni Papa ha il suo stile personale».

domenica 25 dicembre 2016

«Et Verbum caro factum est»


Nativity scene, Mission Church, Kabul, 2016

The Mass of Christmas Day, unlike that celebrated during the night, instead of presenting the story of the birth of Jesus, proposes the prologue of John’s gospel, thus inviting us to reflect upon the mystery we celebrate today.

sabato 24 dicembre 2016

«Orietur stella»



This year I have sent my Christmas greetings with a card saying in Latin: Orietur stella—“A star shall rise.” It is a prophecy we find in the book of Numbers, which reports four oracles of Balaam, a pagan soothsayer, to whom the king of Moab Balak had ordered to curse the Israelites headed for the promised land. But Balaam, instead of cursing the Israelites, inspired by God against his will, was forced to bless them. In his fourth oracle Balaam foretells what is going to happen many years later: “I see him, though not now; I behold him, though not near: A star shall rise out of Jacob, and a scepter shall spring up from Israel” (24:17 NAB/DR). The Jews saw in this oracle a reference to king David, who was a descendant of Jacob; Christians have always understood it as a messianic prophecy: the star and the scepter are symbols of Christ.

mercoledì 21 dicembre 2016

“Mother and Teacher”




On August 16, 2016 the website Cooperatores Veritatis published, under the title “The Church has to offer to man the truth, which is Christ,” a large-scale interview of mine about the current events of the Church. An American priest (who wishes to remain anonymous), having found it interesting, decided to translate it, so that it might have a higher spread, not only among the increasingly numerous readers of this blog in his country, but also among other people in the rest of the world, who do not know Italian, but understand English, which has become by now the lingua franca of the present day. We warmly thank the anonymous translator for his hard work, and willingly share the interview with all our readers.
Q

domenica 18 dicembre 2016

«Ex semine David secundum carnem ... Filius Dei secundum Spiritum»



On the fourth Sunday of Advent we are invited to consider the preliminaries to Christmas, that is to say, what happened before the birth of Christ. The most important event preceding a person’s birth is his conception, which ordinarily comes about nine months before one’s birth. Actually, we celebrate Jesus’ conception exactly nine months before Christmas, namely on March 25, by the solemnity of the Annunciation. But the Church wants us to take up again this event also in the proximity of Christmas, precisely on this last Sunday of Advent, which therefore could be named the “Incarnation Sunday.”

domenica 11 dicembre 2016

«Et beatus est, qui non fuerit scandalizatus in me»



We are halfway through Advent. This third Sunday is traditionally named Gaudete after the first word of the Entrance Antiphon. It is a quotation from the letter to the Philippians (4:4-5), where Saint Paul invites us to rejoice in the Lord. Why? Because “the Lord is near.” Yes, the coming of the Lord is drawing near; and so, we should be happy. Even the liturgical color the priest wears today is not the gloomy purple used during Advent and Lent, but the more cheerful rose. Our heart should really be overflowing with joy for the imminent coming of the Lord.

sabato 10 dicembre 2016

Renzi, massoneria e scautismo



Un lettore, facendo riferimento al mio post del 6 dicembre, mi ha segnalato due articoli, uno di Giacinto Butindaro e l’altro di Angela Pellicciari, riguardanti la “propinquità dello scautismo con la massoneria”, chiedendomi: «Non crede che questa sia tutta la verità?».

giovedì 8 dicembre 2016

«In principio dilexit eam»


Bartolomé Esteban Murillo, El triunfo de la Inmaculada

We have prepared for this solemnity praying, for twelve days, the “Crown of twelve stars.” It is a chaplet—so named after the crown with which in the book of Revelation the woman clothed with the sun was crowned—whereby we consider the twelve main privileges of the Blessed Virgin Mary. What is a privilege? The dictionary defines it as “a special right or advantage that a particular person or group of people has.” Among human beings, Mary is undoubtedly the most privileged person. Why? Because she had been chosen by God to become the mother of his Son. Therefore, he filled her with a lot of graces, so that she could worthily accomplish the mission she had received.

martedì 6 dicembre 2016

Referendum e... accompagnamento pastorale



Bisogna riconoscere che La nuova bussola quotidiana costituisce, nell’attuale momento di crisi, uno dei pochi punti di riferimento rimasti — una “bussola”, appunto — per i cattolici italiani. I commenti pubblicati a seguito della vittoria del NO al referendum costituzionale di domenica scorsa ne sono, se mai ce ne fosse stato bisogno, una ulteriore prova: il commento a caldo di Alfredo Mantovano, l’editoriale di Riccardo Cascioli, il “focus” di Marco Berchi.

domenica 4 dicembre 2016

«Parate viam Domini»



On the second Sunday of Advent one of the leading figures of this liturgical season appears, John the Baptist. The Catechism of the Catholic Church portrays him as follows: “[He] is the Lord’s immediate precursor or forerunner, sent to prepare his way … Going before Jesus ‘in the spirit and power of Elijah,’ John bears witness to Christ in his preaching, by his Baptism of conversion, and through his martyrdom” (#523).

martedì 29 novembre 2016

Il “cambio di paradigma”



Si direbbe che Paradigmenwechsel (“cambiamento del paradigma”) sia un’espressione particolarmente cara al Card. Walter Kasper. L’aveva usata nella relazione con cui aveva introdotto i lavori del Concistoro straordinario sulla famiglia il 14 febbraio 2014 (qui il testo completo; qui una sintesi). In quell’occasione, l’aveva cosí illustrata:
Se si pensa all’importanza delle famiglie per il futuro della Chiesa, il numero in rapida crescita delle famiglie disgregate appare una tragedia ancora piú grande. C’è molta sofferenza. Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale; abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo — come lo ha fatto il buon Samaritano (Lc 10:29-37) — considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto.
Il cambio di paradigma consisterebbe dunque in un mutamento di prospettiva: occorre considerare i problemi della famiglia non piú solo dal punto di vista della Chiesa, intesa come istituzione sacramentale, ma anche da quello “di chi soffre e chiede aiuto”. Viene proposta anche un’icona del nuovo paradigma: la Chiesa deve diventare come il buon Samaritano, deve cioè “farsi prossimo” di chi si trova in una situazione di disagio.

domenica 27 novembre 2016

«Vigilate ergo»



Today the Advent Season starts and, with it, the new liturgical year. This year we also resume from the beginning the three-year cycle of readings with the Year A, during which we are going to read the gospel of Matthew.

giovedì 24 novembre 2016

Dalla sapienza all’ideologia



Domenica scorsa, 20 novembre, in concomitanza con la chiusura del Giubileo straordinario della misericordia, Papa Francesco ha firmato la lettera apostolica Misericordia et misera. Ciò che di questo documento ha destato maggiore scalpore è stata la concessione a tutti i sacerdoti della «facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto» (n. 12), facoltà che era stata già concessa all’inizio del Giubileo, limitatamente alla durata dello stesso (qui). Nessuno vuole mettere in discussione la legittimità di tale disposizione, che rientra senz’alcun dubbio tra le facoltà della suprema autorità della Chiesa e che anzi può portare un po’ di uniformità e semplificazione nella “giungla” normativa finora esistente (disposizioni diverse da una diocesi all’altra; sacerdoti autorizzati e sacerdoti non autorizzati ad assolvere; religiosi col privilegio di rimettere le censure; ecc.), che poteva creare solo confusione nei fedeli. Mi siano però permesse un paio di osservazioni.

lunedì 21 novembre 2016

La “rivoluzione della tenerezza”


Chi porta attacchi come questo non è un “scontento” o un “oppositore” ma qualcuno che punta a “dividere” la chiesa. Il che nel diritto canonico è un crimine, punibile.
All’inizio del giubileo Francesco aveva chiesto alle autorità gesti di clemenza verso i detenuti: clemenza che lui per primo non ha mai applicato ai suoi imputati del processo detto Vatileaks. A fine giubileo si capisce il perché: lui non vedeva in quel processo una procedura penale, ma un gesto pedagogico verso gli avversari.
Quelli che stanno cercando di ridurlo a un santo testimone, che si immedesima nella vita del povero e nel destino dei vinti. E che hanno fatto un altro passo allo scoperto. Rischiando molto.
(Alberto Melloni, La Repubblica, 20 novembre 2016)

I frutti del giubileo della misericordia e della rivoluzione della tenerezza…

domenica 20 novembre 2016

«Hic est rex Iudaeorum»



This is the last Sunday of the liturgical year. At the end of the celebration of the mystery of redemption, the Church invites us to make a kind of synthesis of what we have celebrated during the past year. And she does it showing us the figure of Christ the King, a title our Redeemer gained by performing the work of our salvation, namely suffering and dying for us.

venerdì 18 novembre 2016

“Riforma della riforma”: un errore?



Nei giorni scorsi il sito della Santa Sede ha reso nota la nuova composizione della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (qui). Difficile esprimere un giudizio: come giustamente mi faceva notare l’officiale che mi aveva benevolmente ripreso (qui), bisognerebbe conoscere i Membri uno per uno, per poter stabilire quale sarà l’orientamento del Dicastero rinnovato. Tra i nomi di quelli che erano stati dati per “epurati”, di fatto risultano esclusi i Cardinali Raymond Leo Burke, Marc Ouellet, George Pell e Angelo Scola; mentre sono stati confermati i Cardinali Angelo Bagnasco, Mauro Piacenza e Malcom Ranjith. Staremo a vedere come si evolveranno le cose. In ogni caso, una cosa è certa: fossero anche i nuovi membri tutti di orientamento “benedettiano”, dopo l’ultimo pronunciamento del Papa sulla “riforma della riforma”, la rinnovata Congregazione di sicuro non metterà all’ordine del giorno la “riforma della riforma”. 

mercoledì 16 novembre 2016

Pericolosa polarizzazione



Lunedí scorso, 14 novembre, è stata resa nota la lettera con cui quattro Cardinali (Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner) chiedono a Papa Francesco di dirimere le incertezze sorte dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia, dando risposta a cinque dubia allegati. In un paio di giorni sono stati versati fiumi di inchiostro sull’iniziativa dei quattro Porporati; inutile, quindi, ripetere cose che sono state già dette. Volevo solo evidenziare un aspetto che mi sembra sfuggito ai piú.

martedì 15 novembre 2016

Magistero non-convenzionale e ideologia



Venerdí scorso, 11 novembre, La Repubblica riportava l’ennesima intervista di Eugenio Scalfari a Papa Francesco. Se devo essere sincero, la cosa mi ha lasciato del tutto indifferente: di quello che il fondatore di Repubblica mette sulle labbra del Papa non mi interessa proprio nulla. Il discorso si fa diverso quando l’intervista viene rilanciata da L’Osservatore Romano, che, fino a prova contraria, è il quotidiano ufficioso della Santa Sede. Per carità, anche qui, finché il Papa si limita a dire che il male peggiore che esiste nel mondo sono le diseguaglianze, dal mio punto di vista, non è un grosso problema: si tratta di opinioni personali su cui si può essere piú o meno d’accordo. Magari qualcuno potrebbe far notare — come di fatto è avvenuto — che da un leader religioso ci si aspetterebbe un’analisi meno sociologica e piú religiosa della realtà (il male peggiore, una volta, non era forse il peccato?); ma, ripeto, si può discutere. Cosí come non mi crea eccessivi problemi l’affermazione secondo cui «sono i comunisti che la pensano come i cristiani»: anche questa, un’affermazione discutibile quanto si vuole, ma pur sempre una battuta con un suo fondo di verità.

lunedì 14 novembre 2016

Un calendario liturgico italiano?



Giorni fa Don Andrea Caniato ha pubblicato, sul suo profilo Facebook, la lettera del Card. Angelo Bagnasco, con cui si comunica ai Vescovi italiani che d’ora in poi la ricorrenza di San Nicola (6 dicembre) sarà celebrata nelle diocesi italiane come “memoria obbligatoria”. La cosa non può che farmi piacere. Tale comunicazione però suscita in me anche alcune riflessioni.

domenica 13 novembre 2016

Providentia et misericordia



Today we have celebrated the solemnity of Our Lady of Divine Providence, Titular of the Mission Church and Patroness of the Mission, and have closed the Extraordinary Jubilee of Mercy. So, the homily is about these two special events.

Today we celebrate the patronal festival of Our Lady of Divine Providence. Today we are also going to close the Extraordinary Jubilee of Mercy. So, we are invited to fix our eyes on two important attributes of God: Providence and Mercy. Not only Christians believe in a provident and merciful God, but even believers of other religions do.

mercoledì 9 novembre 2016

Incomprensibile?



Ieri, durante la preparazione alla Messa, mi sono caduti gli occhi sul breve commento alle letture del giorno (Tt 2:1-8.11-14; Lc 17:7-10) nel Saint Paul Daily Missal delle Paoline (le “Figlie di San Paolo”) americane:
The Letter to Titus advises living “temperately, justly and devoutly.” In the Gospel, Jesus tells me to consider myself an unprofitable servant. I don’t find either picture particularly exciting—but who said life has to be exciting? Lord, teach me how to be holy in the humdrum [= la lettera a Tito raccomanda di vivere “con sobrietà, con giustizia e con pietà”. Nel vangelo Gesú mi dice di considerarmi un servo inutile. Non trovo le due immagini particolarmente eccitanti. Ma chi ha detto che la vita deve essere eccitante? Signore, insegnami a essere santo nella monotonia].

martedì 8 novembre 2016

Parola di Dio


Dal Secondo libro dei Maccabei, c. 6, vv. 12-17 (prima lettura dell’odierno Officium lectionis, ciclo biennale, anno II):
Io prego coloro che avranno in mano questo libro di non turbarsi per queste disgrazie e di pensare che i castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo. Quindi è veramente segno di grande benevolenza il fatto che agli empi non è data libertà per molto tempo, ma subito incappano nei castighi. Poiché il Signore non si propone di agire con noi come fa con le altre nazioni, attendendo pazientemente il tempo di punirle, quando siano giunte al colmo dei loro peccati; e questo per non doverci punire alla fine, quando fossimo giunti all’estremo delle nostre colpe. Perciò egli non ci toglie mai la sua misericordia, ma, correggendoci con le sventure, non abbandona il suo popolo. Ciò sia detto da noi solo per ricordare questa verità.
Si tratta di un “interludio” teologico del sunteggiatore (il secondo libro dei Maccabei è il riassunto di un’opera in cinque libri di Giasone di Cirene) nel bel mezzo della narrazione storica. Un testo pre-cristiano, ma non pagano; un testo veterotestamentario, ma confermato dalla rivelazione del Nuovo Testamento («È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?», Eb 12:7); un testo deuterocanonico (“apocrifo”, direbbero i protestanti), ma pur sempre canonico e ispirato. In breve, PAROLA DI DIO!
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lunedì 7 novembre 2016

Una importante (e gradita) precisazione



Non so se, con la riorganizzazione dei suoi servizi d’informazione, la Santa Sede si sia dotata di un ufficio incaricato di scandagliare la blogosfera e di compilare una specie di “rassegna stampa” destinata ai collaboratori (o semplicemente di segnalare agli interessati i post che li riguardano), o se tutto avvenga piú banalmente, attraverso il tradizionale passa-parola: “Ehi, hai letto che ha scritto Tizio sul suo blog?”. A ogni modo, constato che i miei post, almeno quelli direttamente riguardanti i dicasteri vaticani, vengono letti da chi di dovere. Non è la prima volta che ho dei riscontri: era già avvenuto con il post del 12 agosto 2016 concernente la nuova costituzione apostolica sulla vita contemplativa femminile. Allora era stato uno dei consultori della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica a scrivermi; ma non avevo ritenuto opportuno dar seguito alla cosa, avendo avuto l’impressione che si trattasse piú che altro dello sfogo di chi si era sentito punto sul vivo dalle mie valutazioni. Ora è uno degli officiali della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (CCDDS) che mi scrive, dopo aver letto il post della settimana scorsa “Revanscismi ecclesiastici”. Questa volta non posso ignorare il messaggio, non solo per il garbo che lo contraddistingue, ma anche e soprattutto perché vi si trovano delle precisazioni che inevitabilmente provocano, se non proprio una retractatio (le preoccupazioni di fondo rimangono immutate), perlomeno una parziale revisione dei giudizi ivi espressi.

domenica 6 novembre 2016

Et exspecto resurrectionem mortuorum



Our faith is not founded on human ideas but on divine revelation. God revealed himself to us not all at once, but gradually, little by little. Belief in the resurrection, which is one of the main points of Christian faith, got established just around two centuries before Christ. We find it set out in the last books of the Old Testament, like Daniel and the second book of Maccabees. In Jesus’ time, not all accepted that belief: for instance, the Pharisees believed in the resurrection, while the Sadducees—that is the priestly aristocratic and conservative party—denied it. 

mercoledì 2 novembre 2016

Revanscismi ecclesiastici



Venerdí scorso, 28 ottobre, il bollettino quotidiano della Sala stampa della Santa Sede riportava la notizia della nomina dei nuovi membri della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (CCDDS). Gli osservatori hanno fatto notare che si è trattato di un caso piú unico che raro di completo azzeramento di un dicastero della Curia Romana. Praticamente, della vecchia guardia è rimasto soltanto il Prefetto, il Card. Robert Sarah. Qualcuno è arrivato al punto di parlare di “purga”, come quelle di staliniana memoria. Ora è ovvio che ciascun Papa si circonda dei collaboratori che preferisce; non è la prima volta che nelle congregazioni romane avvengono avvicendamenti in base alla sensibilità del Pontefice pro-tempore. Era stato Benedetto XVI che nel 2005 aveva sostituito Mons. Domenico Sorrentino con Mons. Malcolm Ranjith nella carica di Segretario della CCDDS, e nel 2007 aveva rimosso Mons. Piero Marini come Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mettendo al suo posto Mons. Guido Marini. Non si vede perché Papa Francesco non dovrebbe godere della stessa libertà di intervento sui dicasteri vaticani, avendo oltretutto ricevuto, nelle riunioni pre-conclave, una specie di “mandato” dal Collegio cardinalizio di riformare la Curia (si veda il significativo accenno a questo proposito fatto da Papa Francesco nell’intervista rilasciata alla Civiltà Cattolica nel numero del 28 ottobre 2016, p. 5). Il problema, a mio avviso, non è la legittimità dell’intervento (che nessuno contesta), ma le sue modalità di attuazione.

martedì 1 novembre 2016

«Fragilitati nostrae adiumenta et exempla»



I usually linger in my homilies almost exclusively over the gospel of the day; but that is not the only way of delivering a sermon. Liturgical regulations state on this point: “[The homily] should be an explanation of some aspect of the readings from Sacred Scripture or of another text from the Ordinary or the Proper of the Mass of the day” (General Instruction of the Roman Missal, #65). Especially in case of solemnities, in my opinion it can be useful to linger over some liturgical text to grasp the meaning of the mystery that we celebrate.

domenica 30 ottobre 2016

«Hodie salus domui huic facta est»



Not many days ago, on October 18, we celebrated the feast of Saint Luke. The prayer for that day says that God chose the evangelist to reveal the mystery of his love for the poor. Actually, no gospel writer is more concerned than Luke for the poor and no one shows himself so severe with the rich. Just to give a couple of examples, in the chapters immediately prior to today’s gospel we find the parable of the Dives and Lazarus and the episode of the Rich Young Man; in both cases, it would seem that for the wealthy there is no possibility of salvation: Dives, once dead, goes to hell; the rich young man, when Jesus asks him to renounce all his goods and to follow him, becomes sad because of his reaches. And yet, even the wealthy can be saved. Last Sunday, seized as we were with admiration for the humility of the tax collector as opposed to the pride of the Pharisee, we did not realize that that tax collector was not poor, but rich; and yet he was saved. At the beginning of the gospel we find the call of Levi (or Matthew): he also was a tax collector; and yet Jesus chose him as one of his apostles. Very similar to the call of Levi is the incident narrated in today’s gospel. Zacchaeus was a chief tax collector. Luke points out that he was also a wealthy man. And even Zacchaeus is saved. So, salvation is not only for the poor, but for all. Jesus, at the beginning of his ministry, in the synagogue of Nazareth reads the passage from the prophet Isaiah: “The Spirit of the Lord is upon me, because he has anointed me to bring glad tiding to the poor” (Lk 4:18); but, when he calls Matthew, he adds: “Those who are healthy do not need a physician, but the sick do. I have not come to call the righteous to repentance but sinners” (Lk 5:31-32). And now Jesus says: “The Son of Man has come to seek and to save what was lost.” Jesus reinterprets his own mission in the light of the parable of the Lost Sheep: Jesus, like the Good Shepherd, leaves the ninety-nine sheep in the desert and goes after the lost one until he finds it.

giovedì 27 ottobre 2016

Principiis obsta



Martedí scorso è stata resa nota, con una conferenza stampa del Card. Gerhard Müller, l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Ad resurgendum cum Christo circa la sepoltura dei defunti e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione, che reca la data del 15 agosto 2016. Il documento è stato presentato dai media e — va detto — è stato accolto anche da molti cattolici come se introducesse delle novità nella prassi della Chiesa in materia. In realtà l’istruzione non modifica in alcun modo l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cremazione. Se una novità c’è stata in questo campo, essa fu introdotta dall’istruzione del Sant’Uffizio Piam et constantem del 5 luglio 1963, con la quale si disponeva che non fossero piú negati i sacramenti e le esequie a coloro che avessero chiesto la cremazione, a condizione che tale scelta non fosse voluta «come negazione dei dogmi cristiani, o con animo settario, o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa» (posizione successivamente recepita dal nuovo Codice di diritto canonico del 1983). Un intervento, quello del 1963, che non cambiava nulla sul piano dottrinale, ma si limitava a modificare la prassi pastorale. Si tratta, se vogliamo, del primo segnale di una tendenza che avrebbe poi dilagato nella Chiesa. Può essere quindi utile riflettere, a posteriori, sulle conseguenze, talvolta devastanti, che possono avere certe scelte a torto considerate puramente pastorali e quindi dogmaticamente innocue.

domenica 23 ottobre 2016

Fides humilis



Last Sunday we were saying that the Catechism of the Catholic Church mentions three parables on prayer from Luke’s gospel, showing for each of them its main point: persistence in prayer for the parable of the importunate friend; patience of faith for the parable of the importunate widow; and humility of heart for the parable of the Pharisee and the tax collector, which we have just read. So, one of the conditions for being heard in prayer is to be humble. “The prayer of the lowly pierces the clouds,” says the book of Sirach. “The Lord hears the cry of the poor,” we have repeated in the responsorial Psalm. Instead, God does not listen to the prayer of the Pharisee, even because it is not a real prayer. I do not know if you have noticed what the gospel says: “The Pharisee took up his position and spoke this prayer to himself.” Even though his prayer begins with the invocation of God, in reality he is speaking to himself; he does not need God. Actually, he asks him for nothing; he just thanks him for all his virtues, comparing himself to sinners, who do not possess those virtues. It is true that gratitude should always be present in our prayer: we saw that in the story of the healing of the ten lepers two weeks ago. But thankfulness should never be separated from the humble request for God’s help, because only in this way we can show our real condition of people begging for mercy.

mercoledì 19 ottobre 2016

Nova et vetera



Nella conferenza stampa tenuta durante il volo di ritorno dall’Azerbaigian (2 ottobre 2016), Papa Francesco ha enunciato i criteri per risolvere i problemi della famiglia in base all’esortazione apostolica Amoris laetitia: «Si risolvono con quattro criteri: accogliere le famiglie ferite, accompagnare, discernere ogni caso e integrare, rifare». E piú avanti, dopo aver riferito il caso del transessuale spagnolo («lui, che era lei, ma è lui»), ha concluso: «Ma ogni caso accoglierlo, accompagnarlo, studiarlo, discernere e integrarlo. Questo è quello che farebbe Gesú oggi». Dal confronto dei due passaggi, appare chiaro che i quattro criteri consistono nell’accoglienza, nell’accompagnamento, nel discernimento e nell’integrazione. Non si tratta certo di novità: Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto sempre riferimento a tali atteggiamenti come espressioni di quella “conversione pastorale” da lui auspicata nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 25). Solo che, finora, si era sempre parlato di essi in maniera sparsa, senza metterli in successione come momenti di un unico processo. Per esempio, nell’intervista rilasciata al Padre Spadaro nell’estate del 2013 (La Civiltà Cattolica, n. 3918, pp. 449-477) e nell’Evangelii gaudium (24 novembre 2013) si dava grande spazio ai temi del discernimento e dell’accompagnamento; meno, a quelli dell’accoglienza e dell’integrazione. In Amoris laetitia (19 marzo 2016) troviamo tutti e quattro questi elementi, ma anche qui essi non sono enunciati nella scansione adottata nella conferenza stampa del 2 ottobre. Il capitolo ottavo è intitolato “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”; ma manca il primo elemento (“accogliere”), che pure è ricorrente nello stesso capitolo e nel resto del documento. Si direbbe che si stia a poco a poco definendo una sorta di nuovo metodo pastorale, che si sviluppa nei quattro momenti dell’accoglienza, dell’accompagnamento, del discernimento e dell’integrazione.

domenica 16 ottobre 2016

Fides patiens



The Catechism of the Catholic Church, talking of Jesus’ teaching on prayer, mentions the three principal parables on this issue transmitted to us by Saint Luke, namely “the importunate friend” (Lk 11:5-13), “the importunate widow” (Lk 18:1-8), and “the Pharisee and the tax collector” (Lk 18:9-14). We heard the first of these parables some months ago, today we have read the second one, and next Sunday we will listen to the story of the Pharisee and the tax collector. Speaking of today’s parable, the Catechism says: it “is centered on one of the qualities of prayer: it is necessary to pray always without ceasing and with the patience of faith” (#2613). The Catechism explains the parable with the words of the gospel itself: “Jesus told his disciples a parable about the necessity for them to pray always without becoming weary.” Luke is drawing an expression dear to Saint Paul: “Pray without ceasing” (2Thess 5:17; cf Eph 6:18). A monk of the IV century, Evagrius Ponticus, pointed out: “We have not been commanded to work, to keep watch and to fast constantly, but it has been laid down that we are to pray without ceasing.” 

lunedì 10 ottobre 2016

Quando si dice il tempo superiore allo spazio


«Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi piú che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci»
(Evangelii gaudium, n. 223)
Niente, mi tornavano in mente queste parole mentre leggevo la lista dei nuovi Cardinali.
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domenica 9 ottobre 2016

Fides grata



The first thing that strikes us in today’s gospel is the observance of the Mosaic Law. The ten lepers show themselves law-abiding when they stand at a distance from Jesus. The book of Leviticus (13:46) stated that a leper should dwell apart, separated from others. We cannot blame that rule: in a time, when medicine was still primitive, it was the only way to guard the rest of the community against the spread of infection. Jesus also urges the observance of the Law, when he tells the lepers to go show themselves to the priests. The same book of Leviticus (14:2-9) entrusted the priests with the task of checking if a leper was really healed. Even in this case it was a kind of guarantee before readmitting the leper to the community.

mercoledì 5 ottobre 2016

«Io sono con voi tutti i giorni»


Qualcuno dei “miei venticinque lettori” si sarà chiesto che cosa sia successo al Padre Scalese durante il mese di settembre. È ben vero che, al termine dell’ultimo pezzo di agosto, avevo aggiunto un post scriptum che annunciava l’imminente assenza («The Sunday homilist takes his holiday. He will be back, God willing, on the first Sunday of October. God bless!»), ma capisco che, trattandosi dell’omelia domenicale in inglese, a molti possa essere sfuggito quell’avviso. Come preannunciato, dunque, nel mese di settembre ho preso le mie vacanze in Italia, durante le quali non ho avuto né tempo né voglia di aggiornare il blog. Ora però vorrei condividere, con quelli a cui la cosa può interessare, alcuni momenti di una vacanza che quest’anno si è rivelata particolarmente piacevole e interessante.

domenica 2 ottobre 2016

«Adauge nobis fidem!»



It is rather clear that at the center of today’s liturgy there is the theme of faith. The first reading ends with the sentence “The just one, because of his faith, shall live.” A very important statement, on which Saint Paul will develop his doctrine about justification: “Man is not justified by works of the law but through faith in Jesus Christ” (Gal 2:16 RSV; cf Rm 3:28). At the beginning of the gospel the apostles ask the Lord: “Increase our faith” (Adauge nobis fidem!) At the end of the second reading, Paul urges Timothy to “guard this rich trust.” The Apostle is referring to the “heritage of faith” (the depositum fidei, that is the “sacred deposit of the faith”): faith is the most precious treasure we possess; it has been entrusted to us as a trust that we have to keep intact and hand down to our descendants. 

domenica 28 agosto 2016

«Humilia te!»



Today’s liturgy is an invitation for us to humility. In the first reading, the son of Sirach urges us to be humble, if we want to be loved by God and by people. Actually, humility is the best attitude to be accepted by others, even by those who are not humble. Beautiful is the verse: “Humble yourself (humilia te) the more, the greater you are.” Humility is not only for the poor, but for all, especially for the VIP’s. Indeed, celebrities are those most in need of humility. Greatness and humility are directly proportional to each other: the greater you are, the more you must humble yourself. Humility is synonymous with truth: each one should acknowledge their own real condition, even their greatness, if any; but always remembering that whatever we have and whatever we are does not depend on us, but is a gift we have received and are answerable for.

venerdì 26 agosto 2016

Quale pastorale?



Nel precedente post del 22 agosto promettevo un approfondimento sulle lettere pastorali. L’intervento si rendeva necessario dopo aver accennato a tali scritti nell’intervista rilasciata al sito Cooperatores veritatis. Eccomi dunque qui a mantenere la promessa, precisando però che non ho nessuna intenzione di fare un trattato sulle lettere pastorali, ma solo cercare di capire in che senso vada inteso l’aggettivo “pastorale” ad esse attribuito. Si noti che le due lettere a Timoteo e quella a Tito non sono sempre state designate in tal modo. Il primo a farlo è stato D. N. Berdot nel 1703, seguito poi da P. Anton nel 1726. Sono state cosí chiamate perché indirizzate a due “pastori” della Chiesa e perché trattano del modo di guidare le comunità loro affidate.

lunedì 22 agosto 2016

Accorto nel tacere, tempestivo nel parlare


Nell’intervista rilasciata al sito Cooperatores veritatis, rispondendo a una domanda sulla “pastoralità”, citavo le lettere pastorali di San Paolo e la Regola pastorale di San Gregorio Magno. Rinviando a un futuro intervento un approfondimento sulle lettere pastorali (cosa che richiede un certo impegno), per il momento mi limiterò a riportare una pagina tratta dalla Regola pastorale di Gregorio Magno. Ve la propongo non solo perché molto attuale, ma anche e soprattutto perché mi pare illuminante, per comprendere l’abisso che separa l’idea di “pastorale” odierna da quella che aveva in mente il Santo Dottore. Il brano è ripreso dalla Liturgia delle ore, Officium lectionis della domenica XXVII per annum (ciclo unico) e della domenica XXI per annum (anno II del ciclo biennale). Mi sono permesso di apportare qualche ritocco alla traduzione italiana.
Q

domenica 21 agosto 2016

«Contendite!»



In today’s gospel a question is put to Jesus. It is not the first time that we find in the gospel of Luke someone asking Jesus. As we saw in other occasions, Jesus usually does not answer directly these questions, simply because they are put in the wrong way. Look at the question in today’s passage: “Lord, will only a few people be saved?” It is a totally abstract question; we would say, a purely academic question, exclusively aroused by curiosity. What will change in my life, when I have known if those saved are many or few? Definitely nothing! That is why Jesus never answers this kind of questions. He has not come into the world to take part in academic disputes; he has come to bring salvation. So, what is important is not to know how many people will be saved, but to be concerned about one’s own salvation. Therefore, he answers: “Strive to enter through the narrow gate.” Here is what really matters: “Strive to enter through the narrow gate.” The only thing you should be concerned for is to get salvation for yourself. And, apparently, it is not so easy.

domenica 14 agosto 2016

Foederis Arca



Today, instead of the liturgy of the 20th Sunday in Ordinary Time, we celebrate the Vigil Mass of the Assumption of the Blessed Virgin Mary. Among the solemnities of Our Lady, maybe it is the most important, because by it we observe her heavenly glorification. A unique glorification, because, at the end of her earthly life, unlike other human beings, Mary was taken up body and soul into heaven.

The readings of the Mass illustrate this mystery. The first reading, taken from the Old Testament, is about the ark of the covenant. It had been made to keep the tablets of the law. It was considered by the Israelites the most precious thing they had. It was a sign of the presence of God among them. It was often called the “footstool” for the feet of the Lord. Today’s first reading relates the moment when the ark was introduced into Jerusalem. Up to David, the ark was kept under a tent; Solomon built the temple for it, and placed it in the innermost sanctuary of the temple, the so-called “Holy of Holies.” Well, the Virgin Mary has always been considered the “ark of the new covenant” (Foederis arca, we say in the litany), because she carried in her womb Jesus, the Son of God, who established the new and eternal covenant between God and man. The Jews believed that the ark of the covenant was incorruptible; according to a tradition, when the temple of Jerusalem was destroyed, the ark was saved by the prophet Jeremiah and hidden on Mount Nebo; and they believe that it will reappear at the end of time. If the ark of the covenant was incorruptible, all the more so should the Mother of God be. The one who had carried in herself the Author of life could not experience the corruption of the tomb. As the introduction of the ark into the holy city was for its inhabitants a cause for celebration, so should the assumption of the Blessed Virgin into heaven be for us a motive for great joy.

The second reading reminds us of another reason which explains the assumption of Mary. The cause of death is sin. So the one who had not known sin, because she was immaculate, could not taste death. Of course, she had no merit in all that. Victory over sin and death was won by her Son Jesus Christ. She just took advantage of his victory, firstly being born without any stain of sin, and then not knowing the corruption of death.

In the gospel a woman declares “blessed” the womb that carried Jesus and the breasts at which he nursed. She is stating a profound truth; practically, with simple words, she is revealing in advance the mystery of Mary’s glorification. But it is interesting what Jesus replies, “Rather, blessed are those who hear the word of God and observe it.” It is interesting, because it is for us a cause for consolation. We could feel a little frustrated before Mary: she was immaculate, she became the Mother of God, and finally she was assumed into heaven. And we? We are poor sinners: how can we aspire to such privileges? Those of the Blessed Virgin are unique graces; she alone received them. But God makes sure that we shall not want for the graces required for our salvation. The only thing he requests of us is to hear the word of God and observe it. If we do it, we too will share in the same glorious destiny as Mary’s.
Q

venerdì 12 agosto 2016

Un progetto che ci precede



È stata recentemente pubblicata la costituzione apostolica Vultum Dei quaerere sulla vita contemplativa femminile, recante la data del 29 giugno 2016. Nella sua presentazione, avvenuta il 22 luglio scorso, è stata evidenziata la distanza temporale che la separa dalla precedente costituzione apostolica in materia, la Sponsa Christi di Pio XII, promulgata nel 1950 (66 anni fa!). Il Segretario della Congregazione per gli IVC e le SVA, il francescano Mons. José Rodríguez Carballo, nel presentare il documento, ha rilevato che le monache di clausura negli ultimi decenni erano state trascurate a livello legislativo, tanto da essere ancora sottoposte alle norme emanate da Pio XII, e che quindi la nuova costituzione apostolica veniva a colmare una “lacuna di cui si iniziavano a sentire sensibilmente le conseguenze”. Ciò che i mezzi di informazione hanno rilanciato a proposito di questo nuovo documento pontificio praticamente si riduce all’invito a non “reclutare candidate alla vita contemplativa da altri Paesi, al solo scopo di mantenere la sopravvivenza del monastero” (art. 3, § 6) e alla raccomandazione di fare un uso prudente dei mezzi di comunicazione (n. 34).

Se devo essere sincero, non avevo intenzione di leggere la nuova costituzione apostolica, dal momento che non mi riguarda direttamente; ma poi, non resistendo alla curiosità, me la sono letta non una, ma due volte. Sí, perché dopo averla letta una prima volta ed essere rimasto perplesso su alcuni passaggi, mi è venuta la voglia di conoscere quale fosse la normativa precedente; per cui mi sono andato a leggere la costituzione apostolica Sponsa Christi di Pio XII (21 novembre 1950), l’istruzione Venite seorsum del 15 agosto 1969 (sul sito della Santa Sede c’è solo il testo latino; per la traduzione italiana bisogna ricorrere all’Enchiridion Vaticanum) e l’istruzione Verbi Sponsa del 13 maggio 1999. Terminata la lettura di questi documenti, ho sentito il bisogno di tornare sulla Vultum Dei quaerere, per poter fare un confronto.

Il semplice elenco dei summenzionati testi dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che non è del tutto vero quanto affermato da Mons. Carballo nella conferenza di presentazione: non corrisponde a verità che le povere monache continuavano a osservare le norme del 1950, quasi che dopo il Concilio Vaticano II non ci fossero stati altri interventi legislativi. Già nel 1969 l’istruzione Venite seorsum (neppure citata nella nuova costituzione, tamquam non esset…) si proponeva di applicare le disposizioni del Concilio (e del motu proprio Ecclesiae Sanctae) alla clausura delle monache; nel 1999 poi (e quindi successivamente alla pubblicazione del nuovo Codice di diritto canonico e della esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata) era stata emanata una nuova istruzione, la Verbi Sponsa, che aveva adeguato le norme riguardanti la clausura al nuovo contesto. Per cui non c’è mai stato un vuoto legislativo: le monache avevano a disposizione il Codice di diritto canonico, le loro costituzioni e l’istruzione Verbi sponsa per sapere come comportarsi. Anzi, mi chiedo se proprio ci fosse bisogno di questo ulteriore intervento. Ma è una domanda destinata a rimanere senza risposta, dal momento che non conosco quale fosse la reale situazione dei monasteri di clausura. Le osservazioni che seguono, pertanto, si fondano esclusivamente sulla lettura dei testi, sul loro confronto e sulla mia personale esperienza di vita religiosa (ma non su una diretta conoscenza della vita claustrale che, ovviamente, mi manca).

La prima impressione che ho avuto nel leggere questi documenti è stata quella di trovarmi di fronte, nel caso dei primi tre (Sponsa Christi; Venite seorsum; Verbi Sponsa), a dei testi, diversi fra loro, ma tutti “robusti” dal punto di vista dottrinale e chiari e precisi sul piano normativo; nel caso della nuova costituzione invece, ho avuto l’impressione di avere a che fare con una specie di “pia esortazione”, che si mostra poi incerta e confusa in fase legislativa. Ciò che mi ha maggiormente colpito nel leggere la costituzione apostolica di Pio XII è stato il suo interessantissimo excursus storico; leggendo l’istruzione Venite seorsum (che per me rimane il testo migliore), sono rimasto impressionato dalla fondazione biblico-teologica della vita claustrale (basta scorrere le note per rendersi conto della ricchezza di riferimenti); l’istruzione Verbi Sponsa — la quale, dopo aver riaffermato “i fondamenti dottrinali della clausura proposti dall’Istruzione Venite seorsum”, si proponeva solo di aggiornare le norme della clausura papale (n. 2) — mi ha dato l’impressione di essere ancora pienamente attuale e non bisognosa di ulteriori revisioni.

Bisogna riconoscere che la nuova costituzione apostolica contiene numerosi elementi assenti nei documenti precedenti; e quindi potrebbe dare l’impressione di una maggiore completezza. Ma, se si analizza attentamente la natura di tali novità, ci si accorgerà che si tratta di elementi comuni a ogni forma di vita consacrata: essi erano già presenti nei numerosi documenti post-conciliari rivolti ai consacrati, fra i quali sono da annoverare anche le monache di clausura. L’obiettivo dei precedenti documenti era quello di considerare esclusivamente gli elementi specifici della vita contemplativa (la clausura, l’autonomia dei monasteri con la possibilità di federarsi fra loro, il lavoro e lo specifico apostolato). Gli elementi presi in esame da Vultum Dei quaerere sono dodici: formazione, preghiera, Parola di Dio, Eucaristia e Riconciliazione, vita fraterna in comunità, autonomia, federazioni, clausura, lavoro, silenzio, mezzi di comunicazione e ascesi. Va riconosciuto che era forse opportuno trattare alcune di queste tematiche, anche se poi il modo in cui lo si è fatto potrebbe non risultare sempre del tutto soddisfacente (come, p. es., a proposito dei mezzi di comunicazione).

Nella presentazione della vita claustrale (che però, come accennato, si confonde spesso con la semplice vita consacrata) si rilevano alcune sottolineature tipiche dell’attuale teologia della vita religiosa: ho notato un’insistenza (che personalmente trovo eccessiva, se messa in rapporto con altre prospettive che sono state o trascurate o del tutto ignorate) sulla sua dimensione profetica (nn. 2; 3; 4; 5; 6; 16; 23; 35; 36; art. 13); mentre ho percepito una specie di riluttanza a riconoscere l’oggettiva superiorità della vita claustrale (n. 4: «Le comunità di oranti, e in particolare quelle contemplative … non propongono una realizzazione piú perfetta del Vangelo ma, attuando le esigenze del Battesimo, costituiscono un’istanza di discernimento e convocazione a servizio di tutta la Chiesa»). Ho riscontrato una certa compiacenza a ripetere affermazioni oggi di moda:  «La vita monastica, elemento di unità con le altre confessioni cristiane» (n. 4), il che è vero solo per quanto riguarda i rapporti con l’Ortodossia; i monasteri considerati come “scuole di preghiera” (nn. 17; 21; 36) o la raccomandazione a condividere il frutto della meditazione sulla parola di Dio (n. 19; art. 5, § 2), cose difficilmente realizzabili, e in ogni caso discutibili, se si tiene conto della clausura. Non potevano mancare i ricorrenti slogan di Papa Francesco: le “periferie” (n. 6); l’“autoreferenzialità” (n. 29); la “mondanità” (n. 35); la “cultura dello scarto” (n. 36). Chiedo: è davvero necessario che, in qualsiasi contesto, debbano sempre venir fuori le medesime tematiche? Era proprio cosí importante raccomandare alle monache di clausura: «Abbiate cura di preservarvi “dalla malattia dell’autoreferenzialità”»? A parte il fatto che non so che cosa capiranno (io, personalmente, faccio fatica); ma, in fin dei conti, è un peccato tanto grave?

Nel documento si insiste molto — e giustamente — sulla formazione. Ma anche qui lo si fa concedendo molto alle tendenze del momento: si parla di “formazione permanente”, dentro la quale dovrebbe inserirsi la stessa formazione iniziale (art. 3, § 1); di “formazione delle formatrici” (art. 3, § 3); di partecipazione a “corsi di formazione” fuori del monastero (art. 3, § 4); di case comuni di formazione (art. 3, § 7). Cose che si fanno in tutti gli istituti, ma di cui si fa tuttora fatica a scorgere la reale utilità. 

Non saprei esprimere un giudizio sugli aspetti giuridici dell’autonomia e delle federazioni. Per chi, come me, appartiene a un Ordine religioso centralizzato non è facile capire quali siano i meccanismi giuridici che regolano la vita dei monasteri. Certo, meraviglia che ciò che finora era solo una possibilità sia ora diventato un obbligo. L’istruzione Verbi Sponsa affermava chiaramente: «La scelta di aderirvi o meno [alle federazioni] dipende dalla singola comunità, la cui libertà dev’essere rispettata» (n. 27); adesso viene disposto: «Inizialmente tutti i monasteri dovranno far parte di una federazione» (art. 9, § 1). Non so quale sia stato il motivo che ha portato a questo cambiamento; suppongo si tratti della situazione di molti monasteri che non riescono piú, per la scarsità delle monache e per la loro età avanzata, a essere completamente autonomi. Ma certo si tratta di una evoluzione che fa riflettere.

Nutro qualche perplessità a proposito della clausura. A parte il fatto che nel documento si parla di quattro forme (n. 31: «La clausura è stata codificata in quattro diverse forme e modalità [cf VC 59; can. 667]: oltre a quella comune a tutti gli Istituti religiosi, ve ne sono tre caratteristiche delle comunità di vita contemplativa, dette papale, costituzionale e monastica»), mentre, nella conferenza di presentazione, Mons. Carballo parla di tre («vengono ridefiniti i tre tipi di clausura già contemplati in certo modo da Vita consacrata 59, cioè clausura papale, costituzionale e monastica»), personalmente ritengo che non sia corretto parlare, a proposito delle monache di clausura, né di quattro né di tre forme di clausura: per loro esistono esclusivamente la “clausura papale” e la “clausura costituzionale”; il loro unico punto di riferimento è il § 3 del can. 667, dove appunto si parla di questi due tipi di clausura. E in quel paragrafo viene enunciato anche il criterio per l’adozione dell’uno o dell’altro tipo: 
«I monasteri femminili ordinati interamente alla vita contemplativa, devono osservare la clausura papale, ossia regolata dalle norme stabilite dalla Sede Apostolica. Gli altri monasteri femminili osservino la clausura rispondente alla propria indole e definita nelle costituzioni».
Mi sembra che il testo sia sufficientemente chiaro: i monasteri interamente dediti alla vita contemplativa devono (si noti, “devono”) osservare la clausura papale; gli altri (ossia quelli che, accanto alla vita contemplativa, legittimamente esercitano qualche attività apostolica) osserveranno la clausura costituzionale (cioè definita nelle loro costituzioni). Mi lascia pertanto assai perplesso la disposizione di Vultum Dei quaerere: 
«Ogni monastero, dopo un serio discernimento e rispettando la propria tradizione e quanto esigono le Costituzioni, chieda alla Santa Sede quale forma di clausura vuole abbracciare, qualora si richieda una forma diversa da quella vigente» (art. 10, § 1). 
Che significa “quale forma di clausura vuole abbracciare”? Il criterio non è la “volontà” soggettiva del monastero (ciò che in questo momento piace alle monache), ma la sua fisionomia oggettiva (se cioè il monastero è esclusivamente dedito alla contemplazione o se invece si dedica anche a qualche forma di apostolato). È ovvio che c’è sempre la possibilità di cambiare; ma si può cambiare solo perché cambia la fisionomia del monastero, non perché cambiano i gusti delle monache.

Questo mi sembra che sia il punto piú debole del documento, che d’altronde riflette una mentalità oggi piuttosto diffusa nella vita religiosa (e se ne possono constatare le conseguenze...): siamo noi che dobbiamo “inventare” la nostra vita religiosa, dimenticando che essa è innanzi tutto un dono che riceviamo e al quale dobbiamo semplicemente adeguarci. Tale mentalità si manifesta in un altro elemento ricorrente nella costituzione apostolica: l’adozione, anche per i monasteri di clausura, del “progetto comunitario” (art. 3, § 1; art. 6, § 1; art. 7, § 2; art. 13). A quanto mi risulta, finora i documenti della Santa Sede sulla vita religiosa non ne avevano mai parlato (ho trovato un fugace accenno solo ne La vita fraterna in comunità, n. 32); ma negli istituti religiosi è una pratica che ha avuto una larga diffusione negli ultimi decenni (penso che l’origine sia l’America Latina). Il progetto comunitario è stato presentato come uno strumento di rivitalizzazione delle comunità, praticamente come una panacea a tutti i mali della vita religiosa. Nella mia Congregazione fu adottato dal Capitolo generale del 1988 e poi si è trascinato fino a nostri giorni diventando una pratica burocratica come tante altre (il Superiore che all’inizio di ogni anno manda al Provinciale il progetto comunitario, riducendosi a fare uso del “copia e incolla”). Ma ciò che è sbagliato è la mentalità che c’è dietro: l’idea che ogni anno la comunità debba “reinventare” la propria vita religiosa, come se il vangelo, il diritto canonico e le costituzioni non bastassero. Ora si vuole che anche i monasteri di clausura si adeguino a una pratica di cui, sinceramente, finora non s’è visto alcun frutto nelle altre comunità religiose. Quand’è che riusciremo a liberarci dalle categorie della progettualità, della creatività, della fantasia, dell’invenzione (non sono forse altrettante forme di “autoreferenzialità”?), che hanno arrecato non pochi danni alla vita religiosa, e impareremo ad accogliere e a conformarci a un progetto che ci precede, un progetto che non è nostro, ma ci è stato dato da Dio, dalla Chiesa, dai nostri fondatori?
Q

domenica 7 agosto 2016

«Estote parati»



Last Sunday’s liturgy was about detachment from material goods. In today’s gospel we still find an echo of that teaching, “Sell your belongings and give alms. Provide money bags for yourselves that do not wear out, an inexhaustible treasure in heaven that no thief can reach nor moth destroy.” But this reference just serves to introduce the theme of today’s liturgy, which is vigilance. All three readings are about waiting.

We can start from the second reading, which is about Abraham. He was called by God “to go out to a place that he was to receive as an inheritance.” God said to him, “I will make of you a great nation.” To be sure, he went to Canaan, where he lived as a foreigner in tents, and had a son, Isaac, from his barren wife, Sarah; but that was the end of it. The letter to the Hebrews rightly points out that “they did not receive what had been promised, but saw it and greeted it from afar and acknowledged themselves to be strangers and aliens on earth, for those who speak thus show that they are seeking a homeland.” They believed; that is why “God is not ashamed to be called their God, for he has prepared a city for them.”

If we now pass on to the first reading, we find the Israelites on the night of the Passover. They also had received “oaths in which they put their faith.” And for that reason “they awaited the salvation of the just and the destruction of their foes.” They saw with their eyes the fulfillment of the promises; they experienced the might of God, who delivered them from Egypt. But we can imagine what they felt that night: nothing was assured; their flight could fail; only faith gave them courage.

And now let us move on to the gospel. It invites us to take the same attitude of the Israelites before leaving Egypt, “Gird your loins and light your lamps.” The Israelites had their loins girt to be ready to flee; in this case we have to gird our loins to be ready to work on the Lord’s arrival. The master is away for a wedding, and he could come back at any moment. The servants do not know at what time he is coming; so they should be vigilant, that is awake, watchful and ever ready to open to him. Surprisingly, when he comes and finds them so, it will be he to gird himself and wait on them. So, in short, “you also must be prepared (estote parati), for at an hour you do not expect, the Son of Man will come.”

These words apply to everyone. Peter thought that they were addressed only to the apostles. Specifically for them, Jesus adds another parable. The apostles are—they also—servants, but with an additional responsibility: they are like the steward of the parable, whom the master “put in charge of his servants to distribute the food allowance at the proper time.” This is their specific assignment: to be at the service of their co-servants. Of course, to fulfill their task, they are provided with authority; but they cannot abuse their authority, especially in absence of their master. They also do not know the hour of his return; so, they should always be, all the more, at work. In their case, the recompense will be greater; since they were faithful in small matters, they will be given great responsibilities: the master will put them in charge of all his property. 

What matters is to learn to wait. We cannot be impatient. God takes his time. We cannot hurry him. It is we that should adapt to him; not he to us. The only thing we can do is to wait and be ready. Nothing else.
Q

domenica 31 luglio 2016

«Vanitas vanitatum»



Today’s liturgy is about the right attitude we should have towards material goods. Someone asks Jesus to arbitrate in the dispute between him and his brother over an inheritance. This kind of mediation was frequently requested from rabbis; and Jesus was a rabbi. So, there is nothing strange in this request. Moreover, it could be considered a good work to bring back peace in a family. And yet Jesus declines the invitation, “Who appointed me as your judge and arbitrator?” If ever there is a judge, that is exactly Jesus; but he refuses to play this role in connection with a quarrel about money. Why? Because money is not what matters in life: “Life does not consist in possessions.” Jesus came into the world to show us what really matters; not to do justice in issues of no account. Even because, behind the demand for justice, often there is hidden an inordinate desire for wealth: “Take care to guard against all greed.”

To show us that “life does not consist in possessions,” Jesus tells us the parable of the rich fool. Notice: the bountiful harvest is not the result of special efforts by the rich man; it just depends on nature. Therefore, the rich man is neither to praise nor to blame for this. Nor should he be blamed because he asks himself what to do with all these goods, and decides to build larger barns to store his grain. There is nothing wrong in doing that. Material goods are to be kept and managed correctly. It would be irresponsible to let all those goods be ruined. So where is the rich man wrong? His fault is in putting his trust exclusively in material possessions, as if life depended on them. One might also have vast riches, but if he realizes that they are not all in life, that they are just a means to live and to do good, that we could lose them suddenly and, in any case, we shall leave them when we die, there is no problem. The problem is when we are under the illusion that, with many material goods, we can rest easy, as if we should have problems no more, as if life depended on those goods. In my opinion, the great sin of the rich man is what he says to himself, “Now as for you, you have so many good things stored up for many years, rest, eat, drink, be merry!” The only concern of this man now is to rest, eat, drink and be merry. This last verb is the same we find in another parable of Luke’s gospel, the parable of the rich man and Lazarus: even in that case, the rich man has no other troubles than to eat, drink and enjoy life. Don’t you think that this is also our ideal? It seems that nowadays for most of people, especially for the youth, the only thing to which aspire is to enjoy themselves, to have fun, without worrying over problems around them. But God says to the rich man, “You fool, this night your life will be demanded of you.” It is terrible; but, once in a while, it can be useful to be put in front of the seriousness of life. Life is not a game; it is a gift given to us, so that we may get rich in what matters to God. All the rest is vanity of vanities (vanitas vanitatum), as the first reading says.

In the second reading maybe we find the deepest reason why we should not be attached to material goods. If you have noticed, Saint Paul tells us to put to death a series of vices present in our lives: “immorality, impurity, passion, evil desire,” and then he adds another vice, which would seem the worst: “and the greed that is idolatry.” You see? Greed is more serious than other vices; and the reason is because greed is a kind of idolatry. This means that material goods can take the place of God; they become an idol and we — maybe without realizing — worship them instead of the true God. May the Lord deliver us from this idolatry and teach us — as we prayed last Sunday — to “use the good things that pass in such a way as to hold fast even now to those that ever endure.”
Q

venerdì 29 luglio 2016

A proposito di discernimento



Nell’intervista rilasciata a La Civiltà Cattolica (n. 3918 del 19 settembre 2013) alla domanda di Padre Spadaro: «Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il ministero?», Papa Francesco risponde:
«Il discernimento. Il discernimento è una delle cose che piú ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo piú da vicino. Mi ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere ristretti dallo spazio piú grande, ma essere in grado di stare nello spazio piú ristretto. Questa virtú del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio».
«Questa massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per sant’Ignazio i grandi princípi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che risultano piú efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi».
«Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio, pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta, sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare».
«Ecco, invece diffido delle decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione, cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi piú opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte» (pp. 453-454).
Chiosa Padre Spadaro: «Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica» (p. 454). In effetti, si tratta di un tema che ritorna nel successivo magistero di Papa Bergoglio: nell’esortazione apostolica “programmatica” Evangelii gaudium il tema ricorre una decina di volte (nn. 16; 30; 33; 43; 45; 50; 154; 166; 179; 181); nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia il discernimento risulta essere uno degli argomenti centrali: si contano una quarantina di ricorrenze del termine; ad esso è dedicato in particolare il capitolo 8 (“Accompagnare, discernere e integrare le fragilità”). E proprio al ruolo-chiave svolto dal discernimento in Amoris laetitia Padre Spadaro, insieme al teologo americano Louis J. Cameli, ha dedicato recentemente un articolo su La Civiltà Cattolica (n. 3985 del 9 luglio 2016, pp. 3-16) dal titolo “La sfida del discernimento in Amoris laetitia”. Purtroppo, in questo caso non posso darvi il link, dal momento che la consultazione online è permessa solo agli abbonati; mi limiterò perciò a fornirvi l’abstract dell’articolo:
«La parola “discernimento” occupa un posto determinante nell’impianto dell’Esortazione apostolica postsinodale di Papa Francesco sulla famiglia Amoris laetitia. Francesco usa parole molto forti al riguardo: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”. Alcune tra le incomprensioni riguardo a questo importante testo del Magistero nascono proprio dall’incapacità di comprendere che cosa sia il discernimento e di viverlo. L’articolo — scritto a quattro mani dal nostro direttore e da un sacerdote teologo dell’arcidiocesi di Chicago — intende aiutare il lettore a comprendere meglio che cosa sia il discernimento e la sfida seria e impegnativa che esso pone alla pastorale».
Posso inoltre rinviarvi a un paio di commenti: la breve recensione della Nuova Bussola Quotidiana e le recenti riflessioni, in due puntate (qui e qui) di Andrea Mondinelli su CulturaCattolica.it

Non si può inoltre ignorare che “discernimento” è una delle “sei parole talismaniche” di cui tratta Guido Vignelli nel suo Una rivoluzione pastorale, recentemente pubblicato da “Tradizione Famiglia Proprietà” (Roma, 2016, pp. 96), con la prefazione di S. E. Mons. Athanasius Schneider e, in appendice, una sintesi del saggio di Plinio Corrêa de Oliveira Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo (in questo caso, chiunque può liberamente consultare online e scaricare il libro qui). Non posso che raccomandare a tutti la lettura di questo volumetto. Tuttavia non mi sembra soddisfacente la trattazione riguardante il discernimento. Pertanto, vediamo un po’ di raccapezzarci su una questione che sembra diventata particolarmente intricata e confusa.

1. Il discernimento degli spiriti

“Discernimento” deriva dal latino dis-cernere, che significa “distinguere, separare”. Come ricorda Padre Spadaro nel suo articolo, il discernimento è all’origine uno dei carismi elencati nella prima lettera ai Corinzi (12:10; 14:29): piú precisamente, Paolo parla di “discernimento degli spiriti” (διακρίσεις πνευμάτων, discretio spirituum). Un’idea che aveva già espresso nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate (δοκιμάζετε, probate) ogni cosa e tenete ciò che è buono» (5:19-21), e che ritroviamo nella prima lettera di Giovanni: «Non prestate fede a ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti (δοκιμάζετε τὰ πνεύματα, probate spiritus), per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo» (4:1). Da questi testi appare chiaro che ci troviamo in un contesto tutto “spirituale”. Come giustamente fa notare Padre Spadaro:
«Esistono diversi “spiriti” al lavoro nel mondo e nella nostra vita. Certo, lo Spirito Santo di Dio ci attira verso Dio, ma ci sono anche altri spiriti che possono ostacolare il nostro cammino. Il discernimento ci aiuta a determinare ciò che ci porta a Dio e ciò che ci conduce lontano da lui» (p. 5).
Come abbiamo visto in Paolo e Giovanni, questi “spiriti” — buoni e cattivi — si esprimono solitamente attraverso dei “profeti”. Non si tratta, ovviamente, dei profeti dell’Antico Testamento, ma dei “profeti” presenti nelle prime comunità cristiane. Paolo ci invita a non disprezzare tali profeti e quindi a essere aperti nei loro confronti; ma, allo stesso tempo, Giovanni ci mette in guardia dalle contraffazioni, essendoci in circolazione molti “falsi profeti”. Che fare allora? Entrambi ci raccomandano di vagliare, mettere alla prova, discernere gli spiriti, per saggiare se sono da Dio o no. Il discernimento sta esattamente in questo: verificare se un determinato spirito viene da Dio, e quindi è buono e da accogliere, o se proviene dal demonio, e quindi è cattivo e da respingere.

La TOB, nella nota a 1Cor 12:10, fa notare che si tratta di «una capacità che ogni fedele deve possedere». Personalmente, penso che — senza escludere il possesso del dono della discretio spirituum, che è un carisma, da parte di singoli e senza mettere in discussione il dovere per ogni cristiano di discernere la verità dall’errore, il bene dal male — normalmente i fedeli esercitano il discernimento attraverso quello che viene chiamato sensus fidei o sensus fidelium (su cui si può utilmente consultare Lumen gentium, n. 12, il Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 91-93, e il recente documento della Commissione teologica internazionale Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa). Altrettanto normalmente il discernimento dei carismi viene compiuto da coloro ai quali, nella Chiesa, è stato affidato il compito di guidare, come Pastori, il popolo di Dio, vale a dire il Papa e i Vescovi in comunione con lui. Afferma in proposito il Catechismo:
«È in questo senso che si dimostra sempre necessario il discernimento dei carismi. Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, “ai quali spetta specialmente, non di estinguere, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono” [LG 12], affinché tutti i carismi, nella loro diversità e complementarità, cooperino all’“utilità comune” [1Cor 12:7]» (n. 801).
Tale discernimento si verifica, per esempio, in occasione delle fondazione di un nuovo istituto religioso, un procedimento assai delicato, tanto che recentemente è stata resa obbligatoria ad validitatem la consultazione previa della Santa Sede per l’erezione di un istituto di diritto diocesano prevista dal can. 579 (vedi qui). Un discernimento simile va operato in altre situazioni, come, per esempio, nel caso delle apparizioni mariane. Sono trentacinque anni che esiste il fenomeno Medjugorje, eppure la Santa Sede non si è ancora pronunciata in maniera chiara e definitiva. Questo solo per dire che non è per nulla facile discernere certi fenomeni spirituali.

2. Il discernimento ecclesiale

Questo il significato originale di “discernimento degli spiriti”. Naturalmente esso si è andato via via estendendo. In senso lato, i Pastori della Chiesa sono chiamati a discernere se una determinata dottrina sia vera o falsa, o se un determinato comportamento sia buono o cattivo, o, su un piano disciplinare o pastorale, se determinate consuetudini siano ancora valide, e vadano quindi ritenute, o se siano superate, e vadano quindi abbandonate. Da questo punto di vista, il campione di questo tipo di discernimento nei nostri tempi, secondo me, è il Beato Paolo VI, il quale, in una situazione in cui tutto veniva messo in discussione, ha dovuto discernere che cosa bisognava conservare e che cosa si poteva lasciar cadere. Come ho avuto modo di rilevare (vedi qui), ritengo che lo stesso Concilio Vaticano II possa essere considerato come una forma di discernimento della Chiesa sulla modernità e il modernismo, in attuazione del precetto paolino: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono».

3. Il discernimento comunitario

In un senso ancora piú vasto, “discernimento” è diventato sinonimo (ma in effetti lo è sempre stato) di lettura dei “segni dei tempi” e di ricerca della volontà di Dio in una particolare situazione, sia a livello comunitario, sia a livello individuale. Nel primo caso abbiamo il “discernimento comunitario”, praticato oggi soprattutto nell’ambito della vita religiosa. Ne parlano ampiamente il documento La vita fraterna in comunità (2 febbraio 1994) e l’esortazione apostolica Vita consecrata (25 marzo 1996). Il primo di questi documenti descrive cosí il discernimento comunitario:
«Il discernimento comunitario è un procedimento assai utile, anche se non facile né automatico, perché coinvolge competenza umana, sapienza spirituale e distacco personale. Là dove è praticato con fede e serietà può offrire all’autorità le migliori condizioni per prendere le necessarie decisioni in vista del bene della vita fraterna e della missione» (n. 50).
Tale discernimento si realizza specialmente a livello capitolare. Anche se i capitoli, a cominciare da quelli generali, purtroppo sono spesso controllati dalle lobby, quando si dimenticano gli interessi umani e ci si abbandona senza riserve all’azione dello Spirito, il discernimento è molto efficace. Posso testimoniarlo per esperienza personale.

4. Il discernimento spirituale

Sempre in ambito monastico/religioso, si afferma progressivamente la pratica del discernimento spirituale individuale. Padre Spadaro, nel suo articolo, fa riferimento a «i padri e le madri del deserto» (beh, le madri poteva pure risparmiarsele…) per accennare poi all’esperienza di Sant’Ignazio di Loyola che troviamo descritta nei suoi Esercizi spirituali. L’esperienza del fondatore dei Gesuiti infatti è fondamentalmente una esperienza personale di discernimento, riversata poi negli Esercizi spirituali, perché altri potessero ripeterla. Si veda in proposito la lettura della liturgia delle ore del 31 luglio, in particolare la finale: 
«Fu la prima meditazione intorno alle cose spirituali. In seguito poi, addentratosi ormai negli esercizi spirituali, costatò che proprio da qui aveva cominciato a comprendere quello che insegnò ai suoi sulla diversità degli spiriti». 
Ritroviamo l’espressione “spiriti”, che avevamo incontrato nel Nuovo Testamento. In questo caso però non si tratta né di carismi né di profezie, ma della presenza e dell’azione dello spirito del bene e dello spirito del male dentro ciascuno di noi. Gli Esercizi spirituali vengono scritti «per vincere sé stesso e per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni in base ad alcuna affezione che sia disordinata» (n. 21). Fine degli esercizi è l’“elezione”, vale a dire la scelta, o la “riforma” dello stato di vita. Per poter arrivare a questo, occorre appunto fare discernimento. A tale proposito troviamo, alla fine degli Esercizi spirituali, due serie di “regole per riconoscere gli spiriti”, la prima piú adatta alla prima settimana (nn. 313-327) e la seconda indicata soprattutto per la seconda settimana (nn. 328-336). Si tratta di regole destinate a chi dirige gli esercizi, per aiutare l’esercitante a fare discernimento: il discernimento deve essere fatto dall’interessato; il direttore può guidarlo, ma non può sostituirsi a lui. Le regole servono a riconoscere gli spiriti buoni e quelli cattivi, a sapere come comportarsi nel tempo della “consolazione” e della “desolazione” spirituale, a prepararsi ad affrontare le tentazioni e gli inganni del demonio. Ebbene, si tratta di una procedura estremamente complessa e laboriosa che richiede, appunto, tutta una serie di “esercizi spirituali”: quattro settimane di completo ritiro, silenzio rigoroso, cinque ore di orazione ogni giorno, esame di coscienza (particolare e generale), confessione generale dei peccati, ecc. Un metodo severo, ma efficace (anche in questo caso, parlo per esperienza personale).

5. Il discernimento morale

Un’altra forma di discernimento individuale è quello che potremmo definire “morale”. Vi fa riferimento il Catechismo della Chiesa cattolica trattando del giudizio della coscienza (nn. 1777-1782):
«La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi), la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio» (n. 1780).
Come si può vedere da tale testo, il discernimento, in questo caso, è un momento previo al giudizio della coscienza: esso consiste nell’applicazione dei principi della moralità — in sé astratti, perché universali — alla situazione concreta in cui ci troviamo a vivere.

6. Il discernimento pastorale

Ora, infine, ci viene proposto, come “chiave di un cristianesimo adulto” (Padre Spadaro), il “discernimento pastorale”. Di che cosa si tratta? Mah, nonostante i numerosi interventi in proposito, non mi sembra che sia poi cosí chiaro. Vediamo di capirci qualcosa. Innanzi tutto, sembrerebbe che non c’entri nulla col discernimento spirituale, né quello di carattere ecclesiale, né quello individuale di ignaziana memoria. Sembrerebbe piuttosto rientrare nell’ambito del discernimento morale. Con la differenza che non è l’individuo a farlo, nel contesto del giudizio morale, ma un’altra persona — un sacerdote, un confessore, un direttore spirituale — nell’ambito del cosiddetto “accompagnamento pastorale” (un’altra delle parole talismaniche, di cui al volume di Guido Vignelli). Almeno cosí mi par di capire. Amoris laetitia applica questo metodo pastorale alle situazioni matrimoniali “cosiddette” irregolari. Che cosa si tratta di fare? Non bisogna limitarsi a esprimere un giudizio, in base ai principi — astratti — della legge morale; occorre considerare (“discernere”) le situazioni concrete — diversissime tra loro — in cui ciascuna coppia si trova a vivere; e, in base a tale discernimento, verificare l’esistenza di circostanze che possono attenuare se non addirittura annullare la responsabilità morale di determinati comportamenti. Che dire? 

Beh, che la Chiesa abbia sempre fatto tale discernimento, in foro interno (nell’ambito della confessione sacramentale o in sede di direzione spirituale), è un dato di fatto; non è una novità. Ciò che mi crea problema è fare di tale discernimento una “tecnica pastorale”. Ho l’impressione che si stia banalizzando un procedimento estremamente complesso e delicato. Abbiamo visto quale rigida disciplina comporti il discernimento spirituale negli esercizi ignaziani; ora si ha l’impressione (sottolineo: “impressione”) che basti il colloquio con un sacerdote per risolvere situazioni estremamente complesse e ingarbugliate. È vero, si parla di “accompagnamento”. Ma che significa? 

Il bello è che, per risolvere certi problemi, ci si affida alla confessione, alla direzione spirituale, al foro interno, proprio ora che la gente non va piú in chiesa e, se ci va, non si confessa e, se si confessa, si guarda bene dal tirar fuori certe questioni. Figuriamoci poi se pratica la direzione spirituale! E questo tipo di soluzioni pastorali vengono proprio dai paesi dove negli ultimi anni si è registrato un crollo della pratica sacramentale (si vedano i dati riportati recentemente da Marco Tosatti a proposito della Germania). Senza dire poi che la confessione e la direzione spirituale sono pratiche individuali, mentre il matrimonio è una questione di coppia e, per sua natura, ha carattere pubblico: come si possono risolvere in foro interno questioni che dovrebbero essere affrontate in foro esterno (giudiziale o extragiudiziale)? Non sono un moralista né un canonista (e pertanto chiedo venia per eventuali inesattezze), ma ho l’impressione che qualcosa non torni. Lo scopo del discernimento non può essere la ricerca delle circostanze attenuanti del nostro comportamento, ma la ricerca della volontà di Dio su di noi. E, per far questo, la prima condizione è la conversione: riconoscere umilmente i propri peccati e impegnarsi a cambiare vita. Noi invece andiamo a cercare le scusanti. 

Non sarà il caso di fare un po’ di discernimento anche sulla nuova pastorale? L’ultima delle regole per il discernimento della prima settimana degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio recita:
«Quattordicesima regola. Cosí pure il demonio si comporta come un condottiero che vuole vincere e fare bottino. Infatti un capitano, che è capo di un esercito, pianta il campo ed esamina le difese o la disposizione di un castello, e poi lo attacca dalla parte piú debole. Allo stesso modo il nemico della natura umana ci gira attorno ed esamina tutte le nostre virtú teologali, cardinali e morali, e poi ci attacca e cerca di prenderci dove ci trova piú deboli e piú sprovveduti per la nostra salvezza eterna» (n. 327).
Non sarà, niente niente, che il “nemico della natura umana” ci stia ingannando con una delle sue astuzie?
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