lunedì 6 marzo 2017

Papi usa e getta



Di norma, sono portato a non dare eccessivo credito ai rumors. Ritengo che la realtà di ogni giorno ci riservi già sufficienti preoccupazioni di suo, per permetterci il lusso di fasciarci la testa prima di essercela rotta: «A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6:34). Cosí, nella Chiesa attuale, ci sono già abbastanza problemi con i fatti che accadono, con i documenti che si scrivono, con i discorsi che vengono pronunciati; non mi sembra proprio il caso di correre anche dietro alle voci, a ciò che “si dice” a Santa Marta, a quello che il solito “pretino” rigorosamente anonimo confida al giornalista di turno, a quanto rivelano le “fonti riservate” di questo o quel vaticanista, di professione o da strapazzo.

Qualche volta che, sulla “parola di due o tre testimoni” (Dt 19:15; Mt 18:16), pensavo che si trattasse di una cosa piú o meno sicura, ho dovuto in seguito ricredermi. L’ultimo caso è stato quello della commissione costituita presso la Congregazione per il culto divino per la revisione dell’istruzione Liturgiam authenticam (vedi il post del 7 febbraio 2017): visto che ne avevano parlato Sandro Magister, la rivista dei Gesuiti America e la Nuova Bussola Quotidiana, davo la cosa per certa. Mi ha scritto invece il Prof. Andrea Grillo, il quale, pur non smentendo (come era giusto che fosse, non avendone alcun titolo) la notizia dell’istituzione della commissione, esclude qualsiasi coinvolgimento personale nella vicenda:
«Io ho solo scritto sul mio blog una serie di articoli, a partire dal febbraio 2016. Tutto il resto, contatti, commissioni, incontri fuori Roma, sono — almeno per quanto mi riguarda — frutto della fantasia o della immaginazione».
Permettete però che, una volta tanto, possa anch’io dar retta alle chiacchiere senza eccessivi complessi. La settimana scorsa Antonio Socci, di solito bene informato, ha riportato la notizia di grandi manovre che sarebbero in corso in Vaticano (Libero, 28 febbraio 2017; articolo riportato nel suo blog personale Lo Straniero e ripreso anche dal Times di Londra):
«Gran parte dei cardinali che lo [= Papa Bergoglio] votarono è fortemente preoccupata e il partito curiale che organizzò la sua elezione e che lo ha affiancato fin qui, senza mai dissociarsi, sta coltivando l’idea … di una “moral suasion” per convincerlo alla pensione».
E, a quanto pare, si farebbe addirittura il nome dell’eventuale successore: il Card. Pietro Parolin, attuale Segretario di Stato.

Il giorno dopo, 1° marzo, è stato pubblicato sul sito LifeSiteNews (si può trovare una traduzione italiana sul blog Chiesa e post concilio) un articolo di Pete Baklinski, dal quale sembrerebbe di capire che a Bergoglio siano stati dati dai suoi elettori quattro anni per “rifare la Chiesa” (make the Church over again). Anche se nell’articolo non c’è alcun riferimento allo scoop di Socci, non si può fare a meno di mettere in relazione i due interventi e di concludere: i quattro anni stanno ormai per scadere, ergo

In entrambi gli articoli si fa riferimento — come era inevitabile — al conclave del 2013, in particolare al “gruppo di San Gallo” (la cui esistenza era stata rivelata dal Card. Godfried Danneels nel 2015 e confermata da Mons. Georg Gänswein il 21 maggio 2016, in occasione della presentazione del volume di Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI). Socci riferisce che Bergoglio fu eletto da due “partiti”: il partito progressista (che si rifaceva appunto al gruppo di San Gallo) e quello della Curia, sottintendendo che ci fosse un terzo partito, quello ratzingeriano, il cui candidato era l’Arcivescovo di Milano Angelo Scola.

Personalmente ritengo che il conclave del 2013 non possa essere compreso se non mettendolo in relazione con quello del 2005, di cui può essere considerato in qualche modo la continuazione. Anche in quel caso c’erano i tre partiti: quello ratzingeriano (definito da Mons. Gänswein il “partito del sale della terra”), quello progressista e il partito della Curia; ma allora le alleanze furono diverse. In base alle dichiarazioni del gesuita Padre Silvano Fausti, sembrerebbe che il partito progressista, all’epoca guidato dal Card. Martini, avrebbe fatto confluire i propri voti su Ratzinger, per impedire che il partito della Curia eleggesse un suo candidato. Già allora il candidato del partito progressista era il Card. Bergoglio (risultano pertanto piuttosto sorprendenti le dichiarazioni del Card. Theodore McCarrick, secondo il quale nessuno, prima del conclave, pensava a Bergoglio come possibile candidato). In quell’occasione sembrerebbe che il Card. Martini e il Card. Ratzinger (il rapporto fra i due non è mai stato molto chiaro: presentati dalla vulgata come acerrimi nemici, si trovavano poi spesso d’accordo su diverse questioni…) avessero fatto un patto riguardante la riforma della Curia romana: «Se riesci a riformare la Curia, bene; se no, te ne vai». Nel giugno 2012 Martini avrebbe ricordato a Ratzinger, in visita a Milano, il patto concluso in conclave: «È proprio ora [di dare le dimissioni]; perché qui non si riesce a far nulla». Otto mesi dopo, Benedetto XVI annunciò la sua rinuncia al pontificato.

Qualcosa di simile sembrerebbe accaduto nel conclave del 2013. Nonostante il rovesciamento delle alleanze, si elegge un candidato al quale si affida la missione di “rifare la Chiesa”. In questo caso sarebbe stata data anche una scadenza: quattro anni.

Ora, a quanto pare, i curiali si sarebbero pentiti di aver eletto Bergoglio e quindi vorrebbero convincerlo a dimettersi, per eleggere al suo posto un loro esponente. Bene. Io non so se quanto sostenuto da Socci sia vero; non credo che si tratti di una invenzione; almeno un fondo di verità dovrà pur esserci; non voglio però compromettermi piú di tanto con quelle che rimangono pur sempre illazioni. Nel caso fosse vero (sottolineo che si tratta di un periodo ipotetico), mi vengono spontanee alcune riflessioni.

1. Fossi nei panni del partito della Curia, dopo una cantonata del genere, anziché continuare a brigare dietro le quinte, la prima cosa che io farei sarebbe cospargermi il capo di cenere, chiedere scusa ai fedeli e poi ritirarmi in un monastero isolato sulla montagna a pregare e fare penitenza per il resto dei miei giorni.

2. L’esperienza fatta dovrebbe insegnare a tutti che eleggere un Papa (ma lo stesso discorso si potrebbe fare per qualsiasi altro tipo di elezione, nella Chiesa e nel mondo) è una cosa estremamente seria e delicata. Senza entrare in questioni di carattere tecnico-giuridico (che potrebbero arrivare fino al punto di mettere in discussione la validità dell’elezione), sulle quali non ho alcuna competenza, ritengo che un’elezione — tanto piú l’elezione del Papa — non dovrebbe essere oggetto di giochi politici e di patteggiamenti fra “partiti”. Non si scelgono le persone in base alla propaganda o all’affiliazione ideologica, ma in base alla conoscenza diretta o indiretta che se ne ha. La scelta non può essere operata con leggerezza, superficialità e precipitazione; deve essere preceduta e accompagnata dalla preghiera e fatta con grande senso di responsabilità, secondo coscienza, dinanzi a Dio.

3. L’elezione deve avvenire senza alcun vincolo di mandato: il candidato deve essere scelto per le sue doti personali, non perché funzionale a un programma da realizzare. L’unica cosa da esigere da un candidato è l’impegno a cercare sempre e solo la volontà di Dio e il bene della Chiesa. L’eletto dovrà rispondere del suo operato esclusivamente di fronte a Dio e alla propria coscienza, non al partito o allo schieramento che lo ha eletto. Tanto meno si può dare al candidato una scadenza.

4. Qualora nel comportamento dell’eletto dovessero sopraggiungere degli errori (è possibile: siamo uomini e possiamo sbagliare), c’è sempre un rimedio a disposizione: la correzione fraterna (che non va praticata solo verso i pari e gli inferiori, ma, se necessario, anche nei confronti dei superiori). Non è da uomini fare i salamelecchi a chi è in autorità, e poi fargli le scarpe. Nei confronti del Papa, mi sembra assai piú utile pregare per lui, piuttosto che tramare alle sue spalle.

5. Sarebbe ora di finirla con questo chiodo fisso di voler riformare la Curia o addirittura “rifare la Chiesa”. È vero che la Chiesa è semper reformanda; ma la vera riforma, lo sappiamo, non sta tanto nel cambiamento delle strutture, quanto nella conversione dei cuori. La Chiesa non è nostra né, tanto meno, di questo o quel partito, che pensa di poterla riplasmare secondo i propri gusti ideologici. L’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci è di riformare noi stessi.

6. In ogni caso, comunque vadano le cose, dobbiamo concludere che il papato esce da questa vicenda a pezzi. Il fatto stesso che ci sia qualcuno che, non contento di due papi, pensi di eleggerne un terzo, la dice lunga sull’idea che ci si è fatti del supremo pontificato: il Papa è ormai ridotto a una specie di CEO (chief executive officer), intercambiabile a piacere. Le conseguenze devastanti della rinuncia di Benedetto XVI incominciano a farsi sentire. Se poi si aggiunge che a Papa Ratzinger sono stati dati otto anni e a Papa Bergoglio quattro, quanti se ne daranno a “Papa” Parolin? Due? Ormai siamo davvero al papato a perdere.
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