venerdì 23 febbraio 2018

Un “laboratorio culturale” per la Chiesa d’oggi



Don Giulio Meiattini, benedettino dell’Abbazia di Noci, che aveva ripreso e approfondito il mio studio sui I postulati di Papa Francesco (qui e qui), mi ha scritto a proposito dei miei ultimi post sul (mancato) confronto fra Chiesa e modernità, con un particolare riferimento a Rosmini:

Ho letto le sue due ultime riflessioni su Rosmini e ci ho pensato un po’ su. Soprattutto sul fatto se l’appuntamento con la modernità sia davvero stato mancato in modo irrimediabile dal cristianesimo oppure no. Anche se la mia scarsissima conoscenza o meglio la non conoscenza di Rosmini non mi permette di avanzare giudizi molto attendibili in merito, mi sento di concordare con lei che la sua opera sia stata una grande occasione sprecata. C’è da fare penitenza su sacco e cenere. Concordo anche nel ritenere che la questione modernista avrebbe forse avuto un percorso diverso, se Rosmini fosse stato accolto per tempo. Però il problema modernista penso sarebbe ugualmente sorto, almeno per quella parte legata agli studi storico-critici sulle origini del cristianesimo. Da questo punto di vista Rosmini (forse sbaglio?) non si era mai addentrato nelle questioni che saranno tipiche di Loisy o del liberalismo protestante (Harnack, per esempio). Il modernismo ha diversi filoni al suo interno: quello storico-storicista legato al problema delle fonti e all’evoluzione del dogma, quello mistico-esperienziale soggettivistico, anche quello prettamente filosofico (ma mi sembra che i filosofi veri e propri scarseggino tra i modernisti: Laberthonniere, probabilmente non poi cosí pericoloso, e forse pochi altri?).
Per questo ritengo che non bisogna trascurare altri apporti ottocenteschi che, al contrario di Rosmini, hanno avuto una certa accoglienza, anche a lungo termine: Moehler, Scheeben, Newman, per esempio. Dal punto di vista filosofico si può forse avere qualche esitazione, ma Blondel (nella ripresa di De Lubac, per esempio) è stata una via feconda, per quello che posso valutare, che non ha portato al “cristianesimo anonimo”. La nouvelle théologie, a mio parere, è stata qualcosa di diverso da una semplice nuova fiammata criptomodernista. 
Infine vorrei menzionare von Balthasar, al quale sono particolarmente debitore e a cui ho dedicato diversi anni di studio. La sua ripresa di un tomismo basato sui trascendentali, che recepisce alcuni aspetti del metodo blondeliano, ma integrati entro un ascendente barthiano che sottolinea la trascendenza della grazia, a me sembra promettente. Inoltre da non dimenticare che Balthasar, con la su intuizione estetica, ha anticipato di alcuni anni la svolta culturale del post-moderno, assumendo l’aspetto sensibile-affettivo, sí, ma in un contesto metafisico. Il vol. I di Gloria è del 1961: in anticipo sui tempi. Ammetto che anche per Balthasar il copione rischia di ripetersi, se non si è già ripetuto: il tentativo di “rianimare” la Compagnia di Gesú attraverso il carisma della von Speyr è fallito e il post-concilio ha preferito prevalentemente la svolta antropologica rahneriana, piuttosto che la via della gloria Dei e della theologia crucis balthasariana. Tuttavia il confronto è ancora in atto, a quanto mi sembra, e personalmente resto piú fiducioso che la partita con la modernità non sia ancora del tutto persa.
Se lo fosse, sul piano culturale, penso che rischierebbe di aprirsi una stagione triste per il cristianesimo. Non perché sia un problema la visibilità e l’egemonia cultuale, ma perché una spiritualità senza cultura adeguata diventa alla fine asfittica. Anche l’epoca dei martiri del primi tre secoli ha prodotto una teologia di prim’ordine: Ireneo, Giustino, Origene... Voglio sperare che sia cosí anche per la fase non facile che ci sta davanti.
Beh, non posso che dar ragione a Don Giulio: la situazione è un tantino piú complessa di come l’ho presentata io, quasi che nella Chiesa degli ultimi due secoli ci sia stato solo Rosmini; la realtà è certamente piú ricca e variegata. Don Giulio fa tutta una serie di nomi, che non possono assolutamente essere ignorati. Purtroppo, molti di loro per me rimangono poco piú che nomi, essendo la mia conoscenza della filosofia e teologia contemporanee piuttosto sommaria e lacunosa (tali sono gli inconvenienti della formazione ecclesiastica ricevuta alla scuola domenicana — che mi ha dato certamente delle solide basi, ma a scapito di una visione piú generale — a cui si deve aggiungere una preparazione “profana” svolta all’università di Stato, certamente piú varia, ma settoriale a causa del carattere monografico dei corsi). Fra i vari nomi fatti da Don Giulio ne spicca uno che merita un posto privilegiato accanto a Rosmini: John Henry Newman. Piú o meno contemporanei (Rosmini, 1797-1855; Newman, 1801-1890) ed entrambi beatificati recentemente (Rosmini, 2007; Newman, 2010), possono, a mio parere, essere considerati tra i “padri della Chiesa” contemporanea (e non escludo che, dopo la canonizzazione, possano essere dichiarati dottori della Chiesa).

È vero ciò che Don Giulio afferma a proposito del modernismo: esso ha affrontato problematiche (p. es., gli studi storico-critici) di cui Rosmini non si era occupato. Personalmente, però, sono convinto che, se la Chiesa avesse fatto tesoro degli insegnamenti del filosofo roveretano, avrebbe avuto a disposizione gli strumenti per affrontare quelle problematiche in maniera diversa. La base per questa mia affermazione la desumo nella storia della mia Congregazione. I Barnabiti rimasero coinvolti tanto nella “questione rosminiana” quanto nella “crisi modernista”. Fra gli esponenti italiani del modernismo compaiono il Padre Pietro Gazzola (1856-1915) e il Padre Giovanni Semeria (1867-1931), il primo di formazione rosminiana, il secondo di formazione tomistica (fu uno dei primi a usufruire della restaurazione del tomismo promossa da Leone XIII con l’enciclica Aeterni Patris). Padre Gazzola, esprimendo un giudizio sul piú giovane confratello, descrisse perfettamente il ruolo del rosminianesimo:
Il P. Semeria ebbe la sfortuna di una formazione filosofica affatto incompleta … Dalla scolastica piú ristretta (cioè da un indirizzo intellettuale religioso, ma non scientifico nel senso moderno della parola) egli passò di sbalzo alla critica tedesca (cioè ad un indirizzo scientifico, ma non religioso). L’anello di congiunzione tra il vecchio ed il nuovo spirito (il Rosmini) gli è mancato interamente (24 gennaio 1900).
Ecco che cos’era — forse sarebbe meglio dire: “avrebbe potuto essere” — il rosminianesimo: l’anello di congiunzione tra il vecchio e il nuovo spirito. Che il rosminianesimo avrebbe potuto aiutare ad affrontare le problematiche poste dal modernismo in maniera diversa lo dimostra il diverso atteggiamento dei miei due illustri confratelli di fronte al giuramento antimodernista: mentre Padre Semeria tentennò molto prima di emetterlo (lo fece solo in seguito a un intervento diretto di Pio X), Padre Gazzola non ebbe alcuna esitazione a farlo:
Io lo posso prestare [il giuramento] senza alcuna difficoltà e ... le mie convinzioni religiose non hanno bisogno di cambiarsi per questo. Bisogna dire che il mio modernismo è sempre stato molto cattolico (21 settembre 1910).
Analogamente si era espresso due anni prima a proposito dell’enciclica Pascendi:
[L’adesione] mi riesce tanto piú facile e spontanea in quanto che tutta la mia educazione intellettuale si è svolta in perfetta antitesi al soggettivismo filosofico e religioso che è l’anima del modernismo condannato (6 febbraio 1908).
Non vorrei qui insistere sull’ipotesi — che altro non voleva essere — secondo cui la Chiesa avrebbe mancato l’appuntamento con la modernità. È un discorso che andrebbe approfondito; e non escludo di farlo prossimamente, stimolato dalla discussione che è nata in questi giorni a proposito dell’«opzione Benedetto». Quello che invece mi pare di dover raccogliere dalla provocazione di Don Giulio è che la Chiesa avrebbe bisogno oggi di allargare il suo dibattito interno. Ho l’impressione che esso si sia attualmente appiattito in una diatriba piuttosto meschina tra i paladini del nuovo corso ecclesiale e i suoi oppositori; una diatriba che si svolge a suon di slogan ideologici, invettive e reciproche scomuniche (“rigidi!” – “eretici!”) piú che facendo ricorso ad argomenti logici, filosofici e teologici. Sembrerebbe che oggi le uniche due posizioni rimaste nella Chiesa cattolica siano, da una parte, un rahnerismo arrogante ed esclusivo e, dall’altra, un’irrazionale nostalgia per il bel tempo che fu. Sarebbe bello se potesse nascere nella Chiesa un “laboratorio culturale”, in cui, rimanendo fedeli alla tradizione e aperti alle novità dello Spirito, tenendo conto dei tanti contributi che ci sono stati negli ultimi due secoli e cercando di rapportarli alla dottrina immutabile della Chiesa, riuscissimo a ritrovarci, nel rispetto reciproco e nel libero confronto delle rispettive posizioni, tutti uniti nella comune ricerca dell’unica verità.
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